CAPITOLO VII
Lizt.
Sogno d’amore.
Suono cristallino di pianoforte. Variazioni lievi e intense. Sottofondo di contrabbasso. Abbandono coinvolgente.
Chiudo gli occhi, reclinando un po’ la testa. Voglio godermi questi istanti. Fino in fondo. Gli ultimi giorni di questa vacanza. Stupenda. Magica. Fra il blu del Mediterraneo.
L’ultimo sole d’agosto sulla pelle; una brezza leggera nei capelli. E tanta tranquillità. Vera. Autentica. Una pace che ti penetra dentro, azzerando ogni altro pensiero. Ogni altra volontà. Una pace così simile a quella di tre anni fa. A quella provata davanti a un altro mare. Ma al contempo, molto diversa.
Cozzare lieve di ceramiche. Trillo di cristalli. L’ordinazione…
Non mi muovo neppure. E il cameriere si allontana in silenzio. Non ho intenzione di infrangere la sospensione in cui sono caduta. Di riaprire gli occhi. Non voglio. L’unica cosa che desidero è poter gustare fino in fondo questa musica. Queste sensazioni. Mi piace abbandonarmici. Essere avvolta dalla musica. Stordita. Imprigionata.
Ho imparato a parlare con la musica. A cogliere le emozioni racchiuse in ogni singola nota. A leggere i discorsi criptati nei pentagrammi. A esprimere ogni pensiero. Con una naturalezza che all’inizio mi era sembrata impossibile da acquisire. Inconcepibile.
Eppure, ho imparato. Quasi per gioco.
Perché all’inizio è stato un gioco. Solo quello. Un modo per occupare la mente. Allontanarla da ansie e preoccupazioni. Una scusa. Per non pensare. Per confondere tutto quello che avevo in testa. Per nascondermi.
Poi, invece…
Poi è diventato qualcosa di più. Un linguaggio nuovo, che mi affascinava. Un modo di comunicare strano e intrigante. Alla fine, è diventato più di un gioco.
È stata la mia arma. La mia salvezza. Un appiglio. Cui mi sono aggrappata con tutta me stessa. Con cui sono riuscita ad affrontare me stessa. E mi ha soprattutto permesso di costruire qualcosa di duraturo. Senza falsità e fraintendimenti.
Perché mi ha permesso di parlare senza costringermi a espormi. Proteggendomi. Filtrando la mia mente senza aggredirla o forzarla. Mi ha permesso di parlare con chi avevo accanto…
Risate.
Allegre. Infantili. Un suono fresco. D’acqua di sorgente. Il suono di uno zampillo fra il muschio verde. Risate di bambini. Di chi si sorprende di poco. Risate…Il sorriso che si dipinge su un volto nel gioire di una ovvietà. Anche se rivista mille volte…La magia racchiusa nella semplicità…Quella magia che resta imprigionata negli occhi dei bambini…
Sorrido. Incredula.
Ci sono momenti in cui ancora non riesco a capacitarmi di quello che è successo tre anni fa. Momenti come questo. In cui mi sembra di trovarmi in un limbo fuori dal tempo. Irreale. Fantastico.
Mi sembra di vivere un sogno…
Apro gli occhi, e il mio sorriso s’allarga. S’addolcisce. Perché il mio sogno sgambetta sorridente poco lontano da me. Ed ha la forma di una bambina divertita del battito d’ali dei colombi; desiderosa di afferrarne uno. Di coccolarlo. Come se fosse un piccolo peluche.
Una bambina…Cleis. Mia figlia.
Prendo la tazza di thè e me la porto alle labbra. Un gesto meccanico. Che non significa niente. Ma che per me ha il sapore della tranquillità. Della normalità.
Menta…Gusto fresco. Nostalgico. Mi piace. Molto. Mi riporta indietro nel tempo. Alla stanza di una pensione…Ad un altro infuso, bevuto in compagnia…
Rimetto la tazza sul piattino e appoggio la testa alla mano.
Il gelato si sta sciogliendo. Inesorabile. Strisce color crema sul cristallo lucente. E la piccola ciliegia affonda piano – piano, confondendosi con lo sciroppo all’amarena. Presto sarà una barchetta rossa in un mare rosa e bianco.
Forse, dovrei chiamarla. Cleis voleva tanto il suo gelato… Anche se una coppa così grande non la finirà mai. Sorrido. Se i miei problemi fossero solo dover finire un gelato…Penso di sapere già chi l’aiuterà. E senza bisogno di pregarlo.
Mi volto per chiamarla, ma la voce si ferma in gola. Cleis è ferma al centro di questa grande piazza che affaccia sul mare. Ascolta. Non le importa più, il gelato. Se n’è già dimenticata. Ora ci sono solo la voce e i racconti di chi le sta accanto. Segue curiosa la mano che le indica i cavalli di bronzo della chiesa, i mori dell’orologio, la punta del campanile.
Cleis adora le storie. Adora lasciarsene cullare. Soprattutto adora ascoltarle da suo zio. Perché dice che è bravo a raccontare. Che con la sua voce buffa, ora un po’ dura ora vellutata come un flauto, anche le storie tristi sembrano finire bene. Le piace lasciarsi cullare da quella voce.
Forse dovrei esserne gelosa, ma proprio non ci riesco. Perché comunque è da me che Cleis aspetta la storia della buona notte. E io le racconto dei miti della mia terra. La stessa di suo padre. Quelle storie con cui sono cresciuta anch’io. E lei si addormenta con davanti agli occhi immagini evanescenti di eroi indomiti e mostri leggendari.
No. Non sono gelosa. Perché se iniziassi a esserlo di questo zio, poi dovrei provare gelosia anche per tutti gli altri zii che Cleis ha. E sono molti. Perché anche se io non ho fratelli, Cleis ha preso l’abitudine di chiamare così i ragazzi. E nessuno ha mai cercato di correggere lo sbaglio. E adesso sarebbe troppo complicato da spiegare. Un giorno saprà, ma per adesso nessuno si lamenta. Anzi, ha il sospetto che loro ci trovino gusto a farsi chiamare così.
Cleis si volta a salutarmi e mi indica con un sorriso incredulo l’oro della basilica. Forse, lo zio le ha raccontato che le pareti di quella chiesa rifulgono per quel particolare metallo. Non lo so. Ma se così è, lui si è cacciato nei guai. Ha stuzzicato la sua curiosità. E Cleis lo tormenterà finché non potrà accertarsi con i suoi occhi della realtà di quel racconto.
Infatti, la vedo riprendere a correre per la piazza, trascinando quello zio acquisito che per lei è sempre pronto a tornare bambino. Sorrido. Perché mi piace vederla correre così, senza preoccupazioni.
La mia bambina…
Ora sta cercando di convincere il suo compagno di giochi a prenderla in braccio. Le piace. Perché vuole stare in alto. Verso il sole. Più in alto degli uccelli. Lei vorrebbe volare. Spesso distende le braccia e inizia a correre, imitando un areoplanino. E non smette. Almeno finché io o suo padre non la prendiamo in braccio e l’alziamo da terra. Allora è felice. E torna a giocare tranquilla. Anche adesso vuole volare. Vuole essere presa in braccio dallo zio.
Ci riuscirà. Suo zio potrà anche provare a opporsi, ma alla fine capitolerà. Come sempre. Dato di fatto. E infatti, adesso, è lui a saltellare per piazza San Marco, con una piccola peste vestita di blu sulle spalle. E con un cappellino bianco di paglia in testa. Un cappellino da bambini.
Scuoto la testa, nascondendo il mio sorriso dietro al tovagliolo. Un gesto falso. Apparentemente casuale. Per cercare di coprire il mio divertimento. Non vorrei che mi vedesse e si offendesse. Ma è davvero ridicolo. Anche se non sembra importargli. Ignora altamente gli sguardi dei turisti. Lo sconcerto e le occhiate compassionevoli. Non gli importa nulla. Nulla. Lascia solo che sia la risata di Cleis a riempirgli la testa.
La musica è finita.
Silenzio. Per degli istanti tutto sembra fermarsi. Solo lo sciabordio lontano del mare. Poi, voci. Molte voci. Diverse. Concitate. Assordanti.
Infine, di nuovo le armonie del pianoforte.
Mozart questa volta.
Un pezzo da Le sette variazioni. Accogliente e rilassante. Note eterne che smorzano ogni voce. Continuo a sentire solo la risata di Cleis, mentre tiene le mani dello zio, esibendosi in un valzer che ha più i contorni di un frenetico girotondo. Ma Cleis è capace anche di piegare il grande Mozart. E suo zio non si oppone. Avrà tempo, per insegnarle ad apprezzare queste cadenze virtuose. Per ora, lascia che si diverta come vuole.
Mi rilasso sulla poltroncina di vimini e chiudo gli occhi. È meraviglioso affondare nel sole…
Una mano. Sulla spalla. Mi accarezza delicatamente attraverso la seta dello scialle. Percorre le pieghe della stoffa; risale lungo il collo; affonda nei miei capelli.
Mi ci abbandono. Totalmente.
È una mano che conosco bene. Molto bene.
Reclino un po’ la testa, affondando ancora di più in quella mano, mentre un sorriso mi increspa le labbra. Poi, brividi lungo la schiena.
Sapore di mare.
Le tue labbra hanno il sapore del mare. Fresche. Carnose. Mi godo il bacio che mi stai dando. Intensamente. Una mareggiata avvolgente. Che stordisce.
Ti siedi accanto a me facendomi una carezza, mentre con l’altra mano rispondi al richiamo di Cleis. È entusiasta. Semplicemente. Mostra con orgoglio il suo piccolo successo. Un colombo appollaiato sul suo cappellino. Sulla sua testa.
Ridono. Gli occhi di Cleis stanno ridendo. Occhi blu, del colore del mare profondo. Gli occhi di suo padre…
Mi volto a guardarti, inclinando un po’ la testa. Il tuo profilo elegante, con la fronte perennemente nascosta dietro a un ciuffo ribelle e la mascella forte. E poi, i tuoi occhi blu…
Gli stessi occhi.
Il padre di Cleis. Mio marito. Tu.
Julian.
Ti volti un po’ preoccupato. Devo avere una buffa espressione quando rifletto, se riesco a farti allarmare anche quando sto solo pensando alle sfumature dei tuoi occhi.
Scuoto piano la testa. Non ti preoccupare. Non ha niente. Stavo solo ricordando il frammento di una conversazione di tre anni fa. Parole sussurrate davanti a un caminetto, con una cornice in mano.
"Credi che verrà?".
Da quando sai leggermi nella mente? Perché è proprio a lui che stavo pensando. Non lo vedo da più di sei mesi. Neanche una telefonata. Ma non ne sono sorpresa. Lo conosco bene. Conosco il suo carattere. E poi, sono sempre in contatto con suo fratello. E sembra che Elektra si sia divertita molto nell’ultimo periodo, con lui. Ma questo non significa niente. Non per lui. Potremmo essere distanti anche solo dieci metri, e sono sicura che lui troverebbe il modo di andarsene, se non ha voglia divedermi. Lo so. È fatto così.
"Non lo so". Respiro piano, sfiorandomi la farfalla che porto al collo. Un suo regalo. L’ho sempre indossata. Da tre anni, ormai. E tu non ne sei mai stato geloso. Al contrario. Sostieni che ti fa piacere. Che lo trovi giusto.
Non è una bugia. Io lo so. E ne sono contenta. Davvero. Molto contenta. Perché questo ciondolo per me è importante. Molto importante. E il fatto che tu non ne sia geloso significa che hai capito il legame che ci unisce. Che non lo rifiuti. Che lo approvi.
"Phoenix è imprevedibile, lo sai…". Sorrido. Vorrei rassicurarti, dirti che questa volta ci sarà. Che non aspetterà un tuo viaggio d’affari per venirci a trovare. Dirti che non è arrabbiato con te. Perché questo è vero. Lui non ce l’ha con te. Non ti ha mai rimproverato nulla. Vorrei dirti tutto questo e altro ancora, ma mi rendo perfettamente conto che io per prima non ha nessuna certezza. Tranne una. Che io, prima o dopo, lo rivedrò.
Tu, invece…Sono tre anni che cerchi di incontrarlo. Di parlargli. Per ringraziarlo. Solo per questo. Senza ipocrisia e finzione. Vorresti solo potergli stringere la mano. Anche solo quello. Per riuscire a trasmettergli quella riconoscenza che sarebbe quasi impossibile esprimere a parole. Anche per te, che con le parole sei sempre stato bravo. Sai giocarci, come il mare si diverte con le conchiglie.
"Già…"
Un sorriso, che però assomiglia di più a una smorfia. Non è il pensiero di un debito con lui a pesarti. È il sospetto che non riuscirai mai a dirgli grazie. Neanche con gli occhi. Il sospetto che sia lui a non volerlo.
Ne abbiamo parlato varie volte. Lui non ce l’ha con te. E il suo modo di fare. Il suo modo di proteggersi. Perché ha ancora un fantasma da affrontare. Quello che lo ha perseguitato più a lungo. Quello cui è più legato e più lo ha fatto soffrire.
Eppure, io inizio a credere che tu in fondo provi piacere al pensiero che non ti voglia incontrare. Ti crogioli in quell’idea falsa e malsana. Una specie di punizione.
Ti stringo la mano, abbandonata sul bracciolo della poltroncina. No. Tu non devi pensare queste cose. Non voglio. Perché non sono vere. Non è vero che Phoenix non vuole incontrarti. Ha solo bisogno di tempo. Di molto tempo.
Perché, in fondo, tu gli ricordi qualcosa che lo ha fatto soffrire tanto…Tu gli ricordi il mare…
E lo sai anche tu. Per questo non insisti più di tanto. Preferisci aspettare. Che lui sia pronto. Un piccolo anticipo sulla riconoscenza che vuoi comunicargli. Un’accondiscendenza dovuta.
Ricambi la mia stretta e sorridi più tranquillo. Aspetterai. Che sia lui a venire. A sentirsi pronto. Senza però impedirmi di vederlo. Perché sai quanto sia importante per me il legame che ci unisce.
Quell’amicizia quasi irreale, nata per caso e cresciuta all’ombra di un segreto. Quell’amicizia che ha dato a me la forza di andare avanti e a lui quella di ricominciare. Dopo più di dieci anni. Un’amicizia che in questi anni si è solo consolidata.
Ti passi una mano nei capelli, ricacciando indietro qualche ciocca ribelle. Un gesto che ti è abituale. Quando sei in imbarazzo o nervoso. Un gesto che ti ho sempre visto fare, da quando ti conosco.
Una cicatrice. Sul tuo avambraccio destro. Dal polso, scende lungo tutto il braccio, tuffandosi nella manica della camicia.
Mi ferisce gli occhi. Sempre. Anche se sono consapevole della sua esistenza. Anche se so che ce l’hai. Da ormai tre anni. Quasi quattro. La conosco. Ma ogni volta che la vedo, non posso fare a meno di sentire un brivido lungo la schiena. Paura.
Paura. Paura. Folle. Insensata. Ma sempre paura. Soffocante. Capace di gettarmi nel terrore. Di angosciarmi.
Perché mi tornano alla mente le parole che mi furono dette al telefono, in un giorno di pioggia. In una sgangherata cabina del telefono. Alla periferia di una città.
Mi sembrava di rivivere la scena di un vecchio film. Una di quelle pellicole in bianco e nero, dove i protagonisti riescono a ritrovarsi solo dopo molte vicissitudini.
Quello non era un film, però. E la realtà aveva la voce incolore di un medico dal volto sconosciuto. In una metropoli lontana. Berlino.
Non ricordo la conversazione. La mia memoria ha selezionato solo poche parole. Forse, le uniche che davvero sono riuscita a comprendere. Mentre cercavo di smettere di tremare. Mentre inghiottivo lacrime.
"Verkehrsunfall…Prognose mit Vorbehalt…Er ist ernst…Wir wissen es nicht…Entschuldingen, wer ist Sie?"
Ho riagganciato, senza neanche rispondere. Non ce la facevo più. Troppo sconvolta. Troppo spaventata. Semplicemente traumatizzata.
E poi, rispondere per dire cosa? Io non ero ancora presente nella tua vita. Almeno non ufficialmente. Ma in quei momenti non mi importava se ci sarebbe potuto anche essere uno scandalo. Non mi interessava. Riuscivo solo a pensare a te. E al desiderio che avevo di vederti. Di starti accanto. E la consapevolezza che non potevo farlo. Non ne avevo la forza. E poi, non ero certa che avrei potuto fare molto…non con il segreto che custodivo…
Ti avevo chiamato per dirtelo, e invece della tua voce calda, ha risposto quel medico sconosciuto…Non ti ho più richiamato. Avevo troppa paura di risentire quella voce piatta. Di sentire qualcosa che non volevo udire.
È stato Phoenix a farmi uscire dal mio stato catatonico. Standomi accanto e infondendomi quel coraggio che la notizia del tuo incidente mi aveva tolto. Ero pronta ad affrontare il mio segreto, ma non a perdere te. Perché mi ritrovavo sola. E invece, c’è stato lui.
Non so perché l’abbia fatto, all’inizio. Forse perché gli ispiravo compassione. Forse per una sfida. Con se stesso. Forse era solo la curiosità di capire cosa mi spingesse a quel comportamento che non mi era mai appartenuto. Forse è stata la nostra canzone.
Forse un motivo non c’era neppure.
Ci sono molti forse. E probabilmente la verità non la saprò mai. Ma ho una certezza. Che sono riuscita a ringraziarlo. Perché se lui ha aiutato me, anch’io sono riuscita a dargli qualcosa. Senza accorgermene. Qualcosa che non ha nome e non è definibile, ma che Phoenix mi ha fatto capire di dovere a me.
Me lo ha fatto capire. Con mille piccole cose. Senza mai usare le parole. Perchè non gli appartengono. Me lo ha fatto capire con la musica. Con i gesti. Con il ciondolo che porto al collo. Con il maglione che mi ha regalato. Con le chiavi di casa sua.
Con gli occhi. Soprattutto con quelli.
Perché per mesi abbiamo conversato solo con lo sguardo. E in quel modo mi ha anche salutato. Quella sera…Dopo aver incassato un pugno immeritato. Dopo aver inscenato il ruolo del bastardo. Di chi mi ha portato via, illuso e poi riconsegnato come fossi un pacco. Per ovvi motivi.
Si è messo contro tutti. Ha mantenuto il mio segreto e in più si è accollato una responsabilità che non aveva. Per cui nessuno doveva rispondere. Ha accettato il disprezzo di tutti, senza battere ciglio. Come se ci fosse abituato, e non gli importasse il giudizio degli altri. Neanche quello dei suoi amici.
Non ho potuto impedirglielo. Fino all’ultimo, non mi ero accorta di quello che comprendesse il fatto di farmi riaccompagnare da lui. Altrimenti, mi sarei rifiutata. Non l’ho fatto. Non sono riuscita a capacitarmene prima che accadesse. Troppo avvolta in me stessa.
E poi, forse, ho voluto non accorgermene. Da egoista. Ho voluto illudermi. Sperare che non fosse necessario fingere e mentire. Che tu fossi lì, dietro quella porta. Che tutto fosse stato solo un incubo.
Invece, la realtà è stata il suo saluto sereno e l’improvvisata in ospedale, poco dopo la nascita di Cleis. È stata la sua volontà di mantenere in piedi la farsa anche quando i ragazzi sapevano la verità. Solo loro cinque la sapevano. E lui ha continuato a fingere. Finché tu non hai potuto raggiungermi. Finalmente guarito.
E ora sei qui. Accanto a me. Da ormai tre anni.
Phoenix ha permesso questo. Perché mi ha condotto fuori da quell’incubo; mi ha insegnato di nuovo a volare. Con il silenzio e la cocciutaggine del suo carattere. E per questo non smetterò mai di ringraziarlo.
Come vorresti poter fare anche tu.
Perché quella cicatrice non scomparirà mai. Così come il tuo rimpianto per le emozioni mancate di quei mesi e la consolazione che io avessi accanto qualcuno che mi ha saputo aiutare.
"Isabel…"
La tua voce mi riscuote. Calda e suadente. Ma anche un po’ roca. Come l’ho sentita poche volte. Sembri sorpreso. Incredulo.
Seguo il tuo sguardo e incrocio la figurina di Cleis. Sta correndo. Da sola. Ha lasciato Syria inginocchiato fra i colombi e ha iniziato a correre. Verso un uomo…
Occhiali scuri, giubbotto da aviatore, un piastrina al collo…
Phoenix.
Tu ti alzi in piedi, nell’istante stesso in cui Cleis lo raggiunge e viene sollevata in braccio. Phoenix la stringe a sé. Un abbraccio avvolgente. Sincero. Quello che avrei voluto le desse quella mattina di tre anni fa. E che ha rimandato fino ad adesso.
Perché adesso ha ricominciato anche lui a volare. Come ha insegnato a me.
Mi alzo in piedi anch’io, mentre Phoenix si avvicina. Ho il cuore a mille. Sorpresa. Esterrefatta. Perché non mi sarei mai aspettata di vederlo qui a Venezia. Perché sembra che sia stato evocato dal nostro pensiero. Perché non mi aspettavo di incontrarlo così presto. Non ha neanche risposto al mio messaggio.
Come ha saputo dove eravamo? Forse suo fratello, o alla villa…No. Probabilmente, nulla di tutto questo. Probabilmente lo sapeva e basta. Lo ha sentito. Come si è accorto che Cleis era nata. Come ti si accorto di molte cose. Senza mai darmi una spiegazione. Una specie di sesto senso. Che non mi sorprende più di tanto ormai. È sempre stata una sua caratteristica. Arrivare quando c’era bisogno di lui.
Cleis ora è in braccio a Syria; non si quasi neanche accorta del passaggio. Troppo impegnata a scartare il regalo che Phoenix le ha portato. Le fa una carezza, mentre lei lo ringrazia con un sorriso e abbraccia quella lucciola gialla di peluches.
Lo guardo. La pelle abbronzata. I soliti capelli corti arruffati. E il suo solito sorriso sulle labbra. Sornione. Ironico. Da schiaffi.
Un sorriso che è per me. Di soddisfazione. Intensa. Appagante.
Non è più tempo di scappare…
Si sfila gli occhiali scuri. Ora è il momento di guardare le persone negli occhi. Ora che anche i suoi occhi sono tranquilli.
Per un istante, siete l’uno di fronte all’altro. Seri. Rigidi. Mare e aria. Il mio mare e la mia aria. È difficile per voi. Vi costa orgoglio. Ammettere di dover qualcosa l’uno all’altro.
È solo un istante, però. Perché vedo subito Julian scuotere leggermente la testa. Come se si fosse appena risvegliato da un sogno. E infatti, credo che come me anche lui sia rimasto sorpreso nel vedere Phoenix comparire così all’improvviso. Spiazzato.
Mi viene da sorridere. Tutto il bel discorso che si era preparato; le parole che avrebbe voluto usare; le prove che abbiamo fatto…In fumo. È finito tutto in fumo. E ora è bloccato. Con la paura di sbagliare. Di essere frainteso. Di non riuscire a dire quello che da tre anni vuole comunicare.
Forse è meglio intervenire…
Presa in contropiede. Come se mi avesse letto nella mente. Phoenix mi ha preceduta e ad allungato la mano. Viso tranquillo. Viso sereno. Ora è pronto a vincere anche l’ultimo fantasma…
Una stretta forte, decisa. Una stretta riconoscente. Julian ha afferrato quella mano, e ora si guardano negli occhi. Non ci saranno parole. Di questo sono certa. Perché anche così riuscite a capirvi.
Niente parole. Solo un vento profumato di sale. Una brezza fresca. Nuova.
È Cleis a rompere questa sospensione. È scesa dalle braccia di Syria senza che me ne accorgessi e ora sta cercando di attirare l’attenzione di suo padre. Per lei, non c’è nulla di strano in quello che sta succedendo. Non si è mai accorta che Phoenix e Julian non si erano mai incontrati prima.
Julian la prende in braccio, mentre lei gli mostra contenta il giocattolo. Phoenix allunga la mano con un’espressione furba e schiaccia il pancino del peluches. Una tenue luce illumina il volto della lucciola.
Cleis ride. Divertita. Sorpresa.
Guardo Jualian. E poi Phoenix.
Sì. Saresti stato un buon padre…Non te l’ho mai detto, ma lo penso davvero. Se non avessi l’amore di Julian, forse, chissà…
Mi sei stato accanto per quei mesi senza chiedermi spiegazioni. Senza interrogarmi. Né assillarmi. Solo ricordandomi con discrezione la tua presenza. Facendomi capire che non ero sola…
Alla fine, ti ho raccontato tutto. Ogni cosa. E di nuovo mi hai sorpreso. Perché se io avevo paura del giudizio altrui, tu ti sei limitato ad abbracciarmi e a rassicurarmi che per te non cambiava nulla. Che ci saresti stato sempre. Qualsiasi cosa avessi bisogno.
Una promessa racchiusa in fondo ai tuoi occhi.
Il braccio che mi cinge la vita mi riporta alla realtà. Julian mi ha attirato a sé. Una stretta possessiva ma anche molto dolce. La stessa promessa. Fatta dall’uomo che amo.
Guardo l’oceano dei suoi occhi. Finalmente sono limpidi. Senza preoccupazioni né pensieri. È bastato un attimo. Per dirsi quella parola muta in sospesa da tre anni.
Grazie.
Mi rilasso contro il petto di Julian, mentre osservo Phoenix lanciare in alto Cleis e riprenderla al volo. Non ha paura di quel gioco. Sa che può fidarsi di quelle braccia. Di quello strano zio che appare e scompare all’improvviso. Di quello zio che sa di aria come suo padre sa di mare.
Mi sfioro in un gesto meccanico la catenina che ho al collo. Una sensazione. Piacevole. Un’immagine nella mente. Mi fa sorridere. Credo proprio che questa sera dovrò aggiungere un posto al tavolo dello yacht. Ma non mi dispiace per niente.
Sollevo lo sguardo. Sopra la Basilica di San Marco. Sopra il campanile. Su. Ancora più su. Fino a incontrare le prime stelle della notte. Diamanti su un velluto oscuro.
Grazie…
Perché adesso riesco a volare.
Il brano è estrapolato dall’opera teatrale di Sarah Kane intitolata Febbre. (Sara Kane, Tutto il teatro. Einaudi editore. Torino. 2000). La canzone si intitola Lifesaver, quarta nell’album Frsherman’s Woman, di Emiliana Torrini, edito nel 2005. La canzone s’intitola Incantevole dei Subsonica ed è uscita nel 2005 "Incidente stradale…Prognosi riservata… È grave…Non lo sappiamo…Scusi, ma lei chi è?"