CAPITOLO III
Fino alla fine
Fino a che si può
Fino al confine
Fino all’ultimo
Fino alla fine del tempo
Fino a che ce n’è ancora un po’
Fino alla fine di tutto…
Fino ad allora tu…
Tienimi con te
Claudio Baglioni
"Portami con te".
Sorpresa. Ecco cosa provo in questo momento. Stupore puro. Come se mi fossi trovato davanti il diavolo in persona. Invece, sei tu. Proprio tu. Sbatto le palpebre, le socchiudo appena. Devo avere un’espressione idiota, con gli occhi stretti a fessura, mentre cerco di mettere bene a fuoco la persona che mi sta davanti. Non ti vedo da più di due anni…Troppi, forse. All’improvviso, un’onda di vergogna mi assale, facendo aumentare i battiti del mio cuore, togliendomi il respiro. Ma perché mai dovrei vergognarmi come un ladro? È il mio solito atteggiamento. Non è stata la prima volta che sparivo senza dire nulla, e non sarà di certo neanche l’ultima. Tu, poi, sei proprio l’ultima persona cui devo delle spiegazioni. La vita è mia, e me la gestisco come più mi piace.
Eppure, non posso evitare di arrossire. E non poco, anche. Per fortuna non c’è molta luce. Dannazione! Mi secca ammetterlo, ma non posso impedirmi di sentirmi in colpa. Come un ragazzino colto in fallo. La stessa instabilità nelle gambe, la stessa arsura in gola; e la voglia di sviare il tuo sguardo e correre a nascondermi.
Non sono più un ragazzino, però. E non abbasso gli occhi. Non l’ho mai fatto, figuriamoci se ho intenzione di iniziare ora, e per di più davanti a te. Inchiodo su di te lo sguardo più duro e imperturbabile di cui sono capace. No, non ti darò mai la soddisfazione di vedermi vacillare. Chiedere scusa, poi, è un pensiero che non mi sfiora neanche la mente. Anche se sono pienamente consapevole di essere io nel torto; ma so per certo di non aver avuto altre possibilità. Non ce la facevo più, a restare…e se ve lo avessi detto, avreste tentato di fermarmi. Probabilmente ci sareste riusciti anche. Ma io avevo bisogno di andarmene.
È per questo che sei venuta qui? Per avere delle scuse? Sei un po’ in ritardo, direi. E smettila di osservarmi con quello sguardo di rimprovero. Tanto non funziona. Al diavolo anche i miei sensi di colpa! Ne ho già a sufficienza, e non intendo aggiungere anche quelli nei tuoi confronti alla lista.
Disagio. Disagio puro. Mi assale all’improvviso, appena colgo l’ombra nei tuoi occhi. Sono tremendamente tristi. Mi stupisco a pensare che forse stai piangendo, ma il tuo viso è troppo bagnato perché riesca a distinguere possibili lacrime.
Tu che piangi, davanti a me…Ho un nodo in gola, e i miei muscoli si rilassano. Ti guardo veramente per la prima volta da quando sei qui. Un minuto appena.
Sembri piovuta dal cielo con l’acquazzone che si sta riversando sulla città. E sei fradicia. Esausta e bagnata come un pulcino. Mi fai quasi tenerezza. Hai le labbra violacee scosse da piccoli, continui tremiti. Tutto il tuo corpo sta tremando. E tieni gli occhi bassi, mentre con le mani ti stringi le braccia e la camicia che indossi si appiccica a te come una seconda pelle.
Non è tua, quella camicia. Troppo grande. Quella è una camicia da uomo. Ti sta male. Decisamente. La porti come se indossassi un cappotto troppo abbondante. Con le spalle che ti arrivano fino al gomito e le maniche troppo lunghe. Non hai pensato ad arrotolarle e adesso dai polsini spunta fuori solo la punta delle tue dita.
Grottesca. Ecco come mi sembri. Mi vengono in mente quelle ragazzine che indossano jeans attillati e magliette striminzite convinte così di essere più seducenti. O che si truccano pesantemente solo per dimostrare un’età diversa. Più adulta forse. Mi fanno pena. Sarò antiquato, ma è così. Si atteggiano a donne vissute, ma in realtà sono ancora bambine ingenue. Anche se, in fondo, è sempre lo stesso gioco infantile che sopravvive al tempo, adattandosi alle nuove mode. E io non sono certo il più indicato per crociate morali o cose simili.
Scuoto la testa e la piego di lato, mentre un sorriso mi increspa le labbra. Sì. Anche tu sei grottesca; ma terribilmente intrigante. Mi chiedo se tu te ne renda conto in questo momento. Sei bellissima. Con i capelli sciolti e disordinati, con quella camicia bagnata, con quel tuo zaino consunto…
Torno di colpo alla realtà. Non mi ero accorto, prima, dello zaino. Neanche quello è tuo. Di solito tu hai solo accessori firmati; quello devi averlo ripescato da qualche vecchio scatolone.
Ti scruto di nuovo. Questa volta però sono attento. Voglio cogliere ogni tua più piccola emozione; voglio riuscire a leggerti dentro. Perché sei qui ?
"Portami con te".
Tre parole. Mi esplodono in testa all’improvviso. Me l’hai detta prima, quella frase. Io l’ho solo ascoltata. Non l’ho capita. Non ho voluto afferrarne il senso. Quello vero. Troppo sorpreso. Troppo imbarazzato. Troppo offeso.
Portami con te…Cosa significa Portami con te ? E quello zaino? Vuoi forse fare una vacanza? È questo che vuoi? Chiaro. Tu vuoi fare una vacanza. E io ti devo accompagnare. Perché quello che vuoi fare tu è legge, vero? Tu desideri e gli altri devono obbedire a ogni tuo capriccio. E questa volta il tuo capriccio sono io. O meglio, la mia moto. Ma cosa ti fa credere che io abbia intenzione di sobbarcarmi la presenza di un compagno di viaggio? La tua presenza? No. È fuori discussione. Non cercare compromessi, sono inutili. Sono irremovibile su questo. Io voglio stare solo. Io sono solo. Lo sai benissimo.
"Solo fino al primo luogo dove ti fermerai…Poi me ne andrò da sola…"
Silenzio. Non ti rispondo neanche. Le parole sono superflue. Non servono. Sapevi che era una causa persa fin dall’inizio. Hai voluto tentare comunque. Questo ti può anche far onore; ma hai perso. Stringi le mani e affondi di più la testa nelle spalle. Ti prepari per l’ultimo assalto. Hai capito di esser stata sconfitta, ma non lo vuoi accettare. Non sei abituata, a perdere. Vuoi la rivincita. O almeno uscirne fuori a testa alta, mortificandomi. Mi insulterai. Con garbo e ironia, certo. Niente scenate; non sono nel tuo stile.
"Ti prego…"
Ero pronto a tutto. Frasi sferzanti, pungenti o sguardi altezzosi. Anche urla isteriche. Mi aspettavo di tutto. Ma non questo. Un singhiozzo disperato. Sono allibito. Pietrificato.
Prima non parlavo perché lo consideravo superfluo. Ora non parlo perché non riesco ancora a capacitarmi di quello che ho sentito. Una richiesta accorata. Suonava come una vera e propria supplica. Come se ti trovassi in mortale pericolo e io fossi l’unico a poterti salvare. Non capisco. Il mio cervello non connette. È come se si fosse fuso qualcosa.
Perché è così importante per te andare via? Non riesco a capirlo. Respiro profondamente, chiudendo gli occhi. In fondo, non mi importa saperlo. Io non do mai spiegazioni delle mie fughe e dei miei spostamenti. Quindi, non ho il diritto di chiederne. Non sono fatti che mi riguardano.
Seguo i tuoi movimenti con gli occhi; ti rimetti in spalla lo zaino e ti volti per andartene. Niente risposte, niente domande…è un compromesso che si può accettare, in definitiva. Ti richiamo, parlando per la prima volta. E ti lancio un casco, mentre mi infilo il mio e porto fuori la moto.
Va bene; facciamo uno strappo alla regola. L’hai detto tu, però. Solo fino alla prossima tappa. Sì; puoi venire con me. In fondo, è solo un passaggio.
E’ una sensazione strana. Il tuo corpo contro il mio. Sento la tensione che ti percorre tutta, che ti ha fatto chiudere le braccia attorno alla mia vita. Hai paura. Ma non lo ammetterai mai. Come io non accetterò mai questa strana sensazione che mi ha preso lo stomaco, contraendolo in crampi continui. Crampi che mi trasmettono una frenesia costante. Eccitazione pura.
Ti guardo con la coda dell’occhio. Hai appoggiato la testa contro le mie spalle, e tieni gli occhi chiusi. Per non vedere il paesaggio scivolare via, in un’unica macchia indistinta.
Forse vado un po’ troppo forte per le condizioni atmosferiche di oggi. Ho tutti i sensi tesi al massimo. Non posso distrarmi. Il minimo che rischio è una scivolata sull’asfalto bagnato. Una cosa da nulla. Ma non mi va di rischiare nemmeno quella. Non davanti a te. Troppo imbarazzante.
Eppure mantengo la moto a questa velocità folle. Devo sembrarti un pazzo incosciente. Con tutta quest’acqua prendere le curve inclinando la moto fino a sfiorare la strada con un ginocchio o accelerare ancora di più lungo i rettilinei, dividendo la pioggia che scende e lasciandosi dietro solo una scia di schiuma e bollicine.
Non l’ho mai fatto. Questa è solo una dimostrazione di forza. Semplice. Stupida. Maledettamente stupida. Perché mi rendo conto di quanto sia pericolosa. Ma non mi importa. Voglio spaventarti un po’; non per cattiveria, ma per farti capire che adesso sono le mie regole a valere. Che sono io a condurre il gioco.
Do ancora gas e supero una macchina, quasi sfiorandola. Poi, il suono di un clacson che si allontana veloce e le tue braccia strette ancora di più attorno a me. Ecco il risultato della mia brillante manovra. Mi sento uno stupido.
Mi volto appena verso di te, guardandoti da sopra una spalla. Tu li percepisci i miei occhi che ti osservano, perché alzi la testa e mi guardi. Una doccia fredda. Non che mi aspettassi uno sguardo dilatato e in preda al più puro terrore, ma almeno un’ombra di paura, quella sì. Invece, nulla. L’unica cosa che vedo riflessa nei tuoi occhi è sicurezza, e fiducia. Non me la darai mai la soddisfazione di vederti spaventata, vero?
Condurre il gioco…Che stupido. Dovevo saperlo. Non si vince con te. Ma che vuoi che faccia ora? Che lo ammetta chiaramente? No, mai.
Un passaggio. In fondo, è solo un passaggio. Si tratta solo di questo. Poi io continuerò per la mia strada e tu uscirai di nuovo dalla mia vita. Niente battaglie di sguardi. Niente silenzi imbarazzanti. Niente litigate furiose che sono gare di stoccate fini e appuntite. Ognuno per la sua strada. È già deciso.
Una scrollata di spalle al tuo ringraziamento, un saluto veloce e poi di nuovo libero. Non mi costa nulla darti questo strappo, ma non mi piace. Decisamente. Soprattutto adesso. Perché ho capito che riesci a farmi fare quello che vuoi, se ti ci metti. Colpa dei tuoi occhi. Di quei tuoi maledetti magnifici occhi.
Anche lei riusciva sempre a convincermi solo con lo sguardo. Sguardi profondamente diversi, ma su di me hanno lo stesso effetto. Se non me ne accorgo in tempo, mi piegano come un fuscello. Bella figura davvero! Se lo venissero a sapere gli altri, addio a reputazione da duro. E alla pace anche. Il più ribelle di loro che si lascia corrompere da uno sguardo triste o languido. Se lo scoprisse Elektra, poi, potrei dire definitivamente addio alla poca autorità di zio che ho. Sarei alla sua mercé.
Sento un brivido lungo la schiena; non è freddo, ma una reazione di riflesso, data dal tremare del tuo corpo contro il mio. Lancio un’occhiata al tachimetro sotto di me. Vado ancora forte, ma senza accorgermene ho diminuito la velocità. Non dimostravi paura prima e me la mostri adesso? Non ha senso. Perché tremi?
Avverto le tue mani muoversi sopra la mia tuta. Le stai strofinando fra loro piano, per riscaldarle. Sono viola. Mi sento un deficiente. Ero così preso dal mio gioco di dominio da ignorare la verità. Ed era stupidamente chiara.
Hai freddo. Per questo tremi. Io indosso la mia tuta, non sento nulla, né l’acqua che mi viene addosso né l’aria che ci sibila attorno. Io non sento nulla. Tu invece non hai niente che ti protegga. Ti ho lanciato solo il casco e tu, dopo averlo indossato, ti sei seduta dietro di me, con i vestiti fradici d’acqua. La colpa è un po’ tua, però. Non mi hai chiesto niente, né una tuta né un giubbotto; e io non ti ho dato neanche un paio di guanti. Non l’ho dimenticato. Non l’ho proprio pensato. È quest’idea a farmi star male.
Devi essere quasi assiderata. Posso immaginare il freddo che ti morde la pelle, e lo sforzo di riparati da acqua e vento, appiattendoti contro la mia schiena. Ti aggrappi a me ricercando un briciolo di calore. Potresti dirmi di rallentare e di darti una giacca. Ma non lo fai. Mi lasci correre, come se tu non esistessi.
Vincere, perdere, condurre il gioco…Che diavolo mi prende? È vero, sono stato violato nella mia solitudine, sei scivolata di prepotenza nella mia vita, ma in realtà non ce l’ho con te. Ce l’ho con me. Per questo non ho il diritto di sfogare su di te la mia rabbia e la mia frustrazione. Non sei un capro espiatorio. E poi non servirebbe a nulla. Mi farebbe stare solo peggio. Ti sei affidata a me per il tempo di un passaggio. Sei sleale anche tu, però. Perché lo sai che alla fine non ce la faccio ad ignorarti.
Rallento fin quasi al minimo consentito. Mi sento una lumaca, mentre gli altri mi sfrecciano accanto. Di solito amo superare, non essere superato, ma adesso non m’interessa. Non posso fermami sulla corsia d’emergenza. Troppo pericoloso. E la prossima stazione di sosta è ancora lontana. Ma qualcosa la voglia fare. Devo, o alla fine mi farai davvero sentire in colpa anche con te.
Mi sposto all’esterno della corsia di marcia e stacco una mano dal manubrio, per sciogliere la tua stretta. Mossa avventata, ma so con sicurezza di poter guidare un attimo anche con una mano sola. Il tempo di farti capire. Ti prendo una mano e me la infilo nella tasca del giubbotto, stringendotela forte. Restiamo così, con le nostre mani intrecciate, per un tempo che mi sembra infinito. Poi, tu imiti il mio gesto con l’altra mano e io riprendo il manubrio.
Non posso far altro, al momento. Però voglio che almeno le tue mani tornino calde, con il loro bel colore rosato.
Ho deciso. Quest’anno festeggerò il tuo compleanno. E ti regalerò un paio di guanti e una tuta da motociclista. Così, la prossima volta che mi ruberai una corsa in moto non tremerai più.
Ti osservo distratto attraverso la condensa sui vetri di quella sgangherata cabina telefonica. Ti ci sei rinchiusa non appena siamo arrivati qui. Dieci minuti fa. Siamo al capolinea di una stazione della metropolitana. Le nostre strade si dividono qui. Come nei film. Quando uscirai da quella scatola di vetro e plastica mi riapproprierò della mia vita. A te la città frenetica, a me la strada bagnata. Ti lascerò qui…
Mi infilo una mano in tasca, chiudendo gli occhi. Ricerco quella sensazione di brivido che mi hanno dato le tue mani fredde sul mio corpo. Perché le ho sentite le tue mani sul mio addome, come se mi toccassero la pelle nuda. La stoffa interna della tasca è leggera e sotto indosso solo una maglietta a manica lunga, sottilissima. Le ho sentite perdere rigidità e lentamente riscaldarsi, attingendo calore dal corpo. Dal mio corpo.
Devo smettere di pensarci, oppure finirà che metterò a fuoco tutto quello che mi ha scatenato dentro. Lancio un’occhiata al tuo zaino, appeso al manubrio della moto. Mi hai chiesto di tenertelo per il tempo della telefonata. La cabina è stretta e claustrofobica, e lo zaino ti sarebbe stato solo d’intralcio.
Dondola un po’, appeso per una cinghia. L’unica buona. L’altra è tenuta insieme alla meno peggio da alcune graffette. Non reggerà mai un peso. Mi sorprendo a pensare che potrei riparartelo io. So perfettamente come fare. Basterebbero due borchie. Due anelli di metallo lucente. Ne servirebbe una anche vicino alla chiusura, sul davanti. Rischi di perderla, se non ci stai attenta.
È davvero ridotto piuttosto male, questo zaino. Però il colore mi piace. Lo trovo bello. Un marroncino chiaro con le cuciture e lo spazio attorno, per alcuni millimetri, di una tonalità più scura. Qualcosa nella testa mi dice che, probabilmente, è quello il colore originale. E che quell’altro è il risultato dell’usura e del tempo. Non importa. Mi piace così. Punto. Ha un’aria più vissuta. Più autentica. Non sarà griffato, ma è grazioso; originale direi. Anche se rischia di rompersi di continuo.
Guardo di nuovo verso la cabina. Non stai parlando. Sei in attesa, o forse, più semplicemente, stai ascoltando. Mi domando chi ci sia dall’altro capo del filo. Forse stai chiamando alla villa. Sì, dev’essere così. Anche se, per istinto, sono sicuro che non è vero. Chiamalo sesto senso, chiamala preveggenza, ma sono convinto che tu stia parlando con qualcuno che non conosco. Sono lontano, ma colgo la stesso il tremito delle tue mani attorno alla cornetta. Non lo posso vedere, certo. Però sono sicuro che stai tremando. E questa volta non è per il freddo.
Ora che ci penso, non mi sono sorpreso quando mi hai chiesto di fermarmi ad una cabina del telefono. Mi hai detto di avere la batteria del cellulare scarica. Ma io sono sicuro che è una bugia. Non hai la batteria scarica. È molto più facile. Non hai il telefonino con te. Mi chiedo il perché. Di solito, non te ne separi mai. Troppi impegni. Scrollo le spalle. Non spetta a me sindacare su una tua decisione. Tanto più se ripenso al mio cellulare, sepolto fra i cuscini. No. Decisamente non spetta a me farti la predica. O almeno una predica a questo riguardo. Se l’hai lasciato a casa sono affari tuoi. Avrai avuto voglia di staccare del tutto.
La mano che vedo stringersi attorno alla cinghia dello zaino mi fa sobbalzare, e mi riporta al presente. Tu mi stai di fronte, con uno sguardo quasi spaurito negli occhi lucidi. Hai l’espressione di chi ha appena ricevuto una brutta notizia. Probabilmente hai scoperto che la vacanza è già finita. Meglio. Questo tipo di esperienze non fanno per te. Ne sono sicuro. Vivere alla ventura non è qualcosa di adatto a te. Non ti ci abitueresti mai. Ma allora perché ho la sgradevolissima sensazione che ci sia dell’altro sotto?
"Devo andare, ora" dico, afferrando il mio casco.
"Già…". Mi rispondi in un soffio, stringendoti convulsamente al petto lo zaino. La tua voce si è fatta triste e roca. È come se avessi pianto; meglio, se stessi inghiottendo lacrime. Mi sorprende e mi fa star male. Perché non credo che sia solo una vacanza andata a monte la causa di quella improvvisa disperazione. Perché non è malinconia quella nei tuoi occhi; quella c’era quando ti ho trovata davanti alla mia porta. Questa, invece, è disperazione allo stato puro. Devastante.
Allungo una mano verso il tuo viso. Ti lasci accarezzare e io non so assolutamente perché lo sto facendo. So solo che non ti voglio lasciare. Non in questo stato.
Recupero una maglia e un paio di guanti dal mio bagaglio e te li metto in mano, assieme al casco. Sorrido al tuo sguardo stupito. Sì, hai capito benissimo. Ti porto via con me. Non ti sto prendendo in giro. Puoi anche considerarmi un imbecille. Forse è questa l’impressione che do. Non mi interessa. Sia chiaro, non m’importa neanche del perché della tua disperazione. Solo, ti voglio con me. Egoisticamente.
In fondo, è solo un passaggio. Un lungo passaggio. Finché non rivedrò nei tuoi occhi la sicurezza che ti conoscevo. Solo di questo m’importa. Perché, altrimenti, così non riesco a lasciarti andare. Le regole però non cambiano. Questo lo sai anche tu.
Niente domande, niente risposte. Solo il rumore del vento.