CAPITOLO I
Il tuo cuore è un gabbino
Che vola libero nei cieli della vita.
Lascialo andare senza paura,
ti saprà portare alla felicità.
Sergio Bambarén
L’incendio di un tramonto e l’argento liquido del mare possono rendere qualcuno triste e felice al tempo stesso? Per me, in questo momento, è così. Perché è la tua figura che danza leggera sulla battigia, accarezzata da questi ultimi raggi, che mi fa sorridere. Ma so anche che tutto questo sta per finire. E lo sai anche tu.
Eppure, in questo momento, non mi interessa. Ci siete solo tu, il cielo e il mare nella mia mente. Il mio cielo e il tuo mare.
Sei bellissima. Non te l’ho mai detto. Non è il genere di espressione che mi caratterizza. Non l’ho mai detto neanche a lei. Ma adesso è il tuo foulard che mi ipnotizza. Non ricordo il suo colore, e sei troppo distante perché lo possa vedere bene. Però, per me, è azzurro pallido. Sì, ho deciso. Azzurro pallido. Il colore delle ali degli angeli. E quel pezzo di stoffa frusciante che danza con te in questo momento sono le tue ali. E io vorrei essere al suo posto. Ma me ne resto qui a guardarti, appoggiato allo stipite della porta-finestra, con il mio bicchiere di Martini in mano. Mi sembra di percepire il tuo respiro che si inebria dell’aria marina, e di vedere il tuo sorriso nell’assaporare il calore della sabbia e la freschezza delle onde.
Vorrei fermare il tempo in questo istante. Regalarti tutta la gioia che ti meriti. Perché solo adesso ti ho vista per quello che sei veramente. Fermare il tempo…meglio, tornare indietro, per riprendermi qualcosa che ho perso…magari potessi farlo. Invece, resto qui, a godermi la tua danza di luce e sale. Non sai che ti sto osservando; mi credi intento a preparare la cena. Per questo non ti sei seduta sull’ultimo gradino della veranda a guardare il sole andarsene, come fai di solito, ma sei corsa a salutarlo, per prendere congedo anche da questi mesi di libertà.
Il telefono, devo rispondere. È importante. Mi stacco controvoglia dalla finestra e sollevo il ricevitore. So già chi è all’altro capo del filo e mi costringo a riportare la mente alla realtà, togliendola dallo stato catatonico in cui era caduta.
"I referti sono pronti e anche la cartella è stata aggiornata. Puoi passare a ritirare tutto domani."
"Grazie Max. Ti devo un favore". Vorrei sembrare allegro, ma la voce mi esce roca.
"Non ti preoccupare. Dovere professionale". Fa una pausa, e io so cosa vuole chiedermi. Sono tentato di salutarlo in fretta e chiudere la telefonata. Perché io stesso ho paura della risposta che devo dare.
"Quando partite?". Ecco, lo ha fatto. Ci sta ancora girando attorno, ma la strada che ha imboccato ormai porta solo a quello. Gli dico che il volo è fra due giorni, e che io l’accompagnerò fino a casa. Lui annuisce, e chiede:
"E…dopo?"
"Me ne andrò. Per sempre". Ecco, l’ho detto. Perché non ci sarà mai un dopo. Non è quello il mio posto, ma di qualcuno che lo saprà ricoprire forse meglio di me. Ma che comunque è quello che gli spetta. Io, questo diritto, l’ho perso più di dieci anni fa.
Ho appena posato il ricevitore e tu entri dal terrazzo. Stai sorridendo, ma hai gli occhi lucidi e io so che hai pianto. Sei comunque incantevole.
"Comincia a fare freddo"mi dici, sistemandoti i capelli scarmigliati dal vento e guardandoti attorno alla ricerca di chissà cosa.
"È l’aria di mare" ti spiego. "E l’autunno che avanza e si porta via il sole." Sospiro. Si porterà via anche te.
Ho acceso il caminetto. Non è inverno, e non fa ancora così freddo da attivare i termosifoni, eppure stasera ho voluto accendere il fuoco. Non lo faccio quasi mai, di solito. Il fuoco è un interlocutore incostante e poco attento; ha un solo pregio: non interrompe mai il filo dei tuoi pensieri. Ecco perché non mi piace il caminetto. I pensieri e i ricordi mi assalgono, e con essi il rimpianto. Perché di solito, nella vita normale, sono due le persone che si rifugiano nell’intimità di un caminetto acceso.
Arrivi silenziosa alle mie spalle. Sorrido fra me, immaginando la tua espressione sorpresa. Ti avevo detto che non amavo il caminetto e che non l’avrei acceso. Adesso, invece, i ciocchi di legna sono lì, e crepitano liberando fra le fiamme scintille d’oro. È una serata speciale questa, e io volevo farti un regalo del tutto inatteso. Un regalo speciale.
"Lo hai fato per me?". La tua domanda è un sospiro commosso cui io non rispondo. Mi limito ad accennare di sì con la testa. Rimetto al suo posto l’attizzatoio e mi sistemo meglio per terra, sedendomi sui cuscini sparsi ovunque su questo tappeto e puntando le mani dietro la schiena.
Non so cosa succederà adesso. La scelta è tua, ma ormai lo sai che di me ti puoi fidare. Ti prego solo di una cosa: non restare lì a fissarmi in quel modo. Non ti guardo, ma li sento quegli occhi puntati su di me. È una sensazione strana quella che mi scorre a fior di pelle; come una miriade di lievi scosse elettriche o di piccoli brividi.
Imagine there’s no heaven
It’s easy if you try
No hell below us
Above us only sky
John Lennon. Mi concentro sulla canzone, inizio a ripeterla a memoria. Ma sono agitato, distratto.
You may say I’m a dreamer
But I’m not the only one
I hope some day you’ll join us
Incespico nelle parole, sbaglio il tempo. Confondo strofe e ritornello. Per fortuna non cantavo a voce alta. Povera canzone. È così bella, e io nella mia mente l’ho massacrata. Pazienza, non ero attento. Andrà meglio con la prossima.
When I find myself in times of troubles
Mother Mary comes to me
Speaking words of wisdom: let it be
Let it be? Impossibile! Doveva esserci Yesterday. Imagine è la quinta nel CD…o forse la settima? Dannazione! Non importa. L’ordine non cambia: prima Imagine, poi Yesterday. Punto. Let it be è come minimo al decimo posto. Lancio un’occhiata al display dello stereo: LET IT BE 15. Risposta implacabile.
Sbuffo e mi lascio cadere sui cuscini. No. Decisamente sono distratto. Incrocio le mani dietro la testa e sollevo i gomiti.
"Cos’è?" mi chiedi canticchiando dietro alla musica che si diffonde nell’aria. Abbasso le braccia e scopro il viso. Finalmente ti guardo. Hai una nuca bellissima e un collo sottile, accarezzato da piccoli ciuffi di capelli sfuggiti alla selva di forcine di uno chignone ormai sfatto. Sorrido. Perché anche così la tua figura non perde in eleganza. Ti volti a guardarmi con l’espressione tipica di chi è curioso, e io sono costretto a seguire la tua mano fino alla custodia riposta in un vano del mobile.
"Il mio sassofono" ti rispondo rimettendomi seduto. "Però non ho mai imparato a suonarlo bene"
Tu scuoti la testa. La tua espressione è così dolce che vorrei fermarla per sempre sul tuo viso. "Mi piacerebbe ascoltarti…"mormori accarezzando la custodia nera e ruvida. Poi torni ad accarezzare con le dita e con gli occhi i ricordi disseminati attorno a noi. Li conosci già a memoria. Conosci ogni centimetro di questa casa. Ci sei vissuta per tre mesi. L’ unica cosa che non hai mai visto è la mia stanza, e quella custodia prima di stasera.
Eppure il tuo sguardo è quello di chi vede quegli oggetti per la prima volta; pieno di curiosità e desideroso di cogliere anche solo un frammento della mia vita. Ora sei presa da delle immagini in cornice, sopra la mensola del camino. Questa volta non mi farai domande. Conosci già le risposte. Ciononostante sono sicuro che ti fermerai su ognuna di loro. Come fosse la prima volta. Per imprimertele nella memoria.
Infine, prendi una fotografia e ti dirigi verso di me. Io non mi muovo e tu ti accoccoli accanto a me, nascondendo le gambe sotto la coperta che hai recuperato dal divano.
"È davvero carina, Elektra…".Un visetto allegro ci sorride da sotto il vetro. Mi manca tanto. È quasi un anno che non le parlo. "Ha i tuoi stessi occhi…"mormori piano.
Particolare dolente. Ne sono contento, ma vorrei non fosse accaduto. "Sì" ti rispondo. "Anche se è solo mia nipote".
Tu smetti di sorridere. E io capisco di aver sbagliato il tono della mia voce. Non voglio che tu creda di avermi ferito.
"Scusami" mi dici. Tieni gli occhi bassi e non mi guardi. Non sei più la donna altera e sicura di sé di dieci anni fa. Almeno, non lo sei in questo momento. Non lo sei con me. "Immagino che…".
"É il mio orgoglio" ti interrompo. "Un piccolo dono che il destino ha voluto farmi". Tu sembri ancora dubbiosa. "Davvero" insisto. "Per chi è solo vedere i propri occhi in una persona cara è una sensazione inspiegabile. Euforica e struggente al tempo stesso. È come se un sogno si fosse avverato…".
Sento la tua mano sulla guancia. Un contatto leggero, una carezza calda e gentile. Mi lascio accarezzare e appoggio la mia mano alla tua, chiudendo gli occhi.
Mi stai sorridendo. Lo so. Lo sento. Percepisco la tua serenità. Ne sono avvolto. Tu lo capisci, perché il tuo sorriso si allarga. Mi prendi la mano fra le tue, ma poi sembri esitare. C’è paura sul tuo volto, o forse solo un po’ di ansia. Ho capito cosa vuoi fare, ma non te lo permetterò. Non sarebbe giusto. Sfilo piano la mia mano dalle tue, ma con decisione. Tu impieghi un attimo a capire cosa sto facendo e quando reagisci, stringendo le dita, imprigioni solo aria.
Peccato. Si stava bene seduti con te vicino al camino. Credevo che sarebbe andata diversamente, che avremmo fatto mattino a parlare. Non è andata così. Ormai mi sono alzato, dicendoti di aver voglia di una doccia, e ti ho lasciata lì sola, sui cuscini.
Sembri così fragile in questo momento, raggomitolata su una poltrona più grande di te. Come un cucciolo che ha bisogno di essere protetto e coccolato.
Potrei avvicinarmi e sederti accanto, abbracciandoti per trasmetterti un po’ di quella sicurezza che hai paura di non avere più. Vorrei davvero potertela trasmettere io quella forza che brami, ma so già che è in te, e che lo è sempre stata. E dopodomani, se sarà necessario, saprai attingerci, perché è una fonte inesauribile cui pescare, per andare avanti. Anche quando io sarò costretto a lasciarti. Anche se so che non resterai sola.
Pensavo che sarei stato contento di riavere la mia libertà, ma in verità mi dispiace. Per mille motivi ma, soprattutto, perché con te, in questi mesi, ho scoperto qualcosa che altrimenti non avrei mai provato. Anche se tutto si risolverà nella fotocopia amara di un sogno irrealizzabile, adesso, non tornerei indietro per nulla al mondo.
Ora è il mio turno, di osservarti. Per rubare al tempo il ricordo di questo tuo viso da bambina, addormentata stretta ad un coniglietto di peluche.
Indossi quella tuta di…Quanto? Due o forse tre taglie troppo grande. Non avrei mai immaginato che un giorno ti avrei vista con un abito tanto largo da farti apparire goffa. Incantevolmente goffa. C’è profumo di menta. Però non sono sicuro di sentirlo davvero; forse, più semplicemente, lo sto solo ricordando. Perché è il profumo di quella sera. E tu indossavi quella tuta.
Un brivido ti percorre e inconsciamente ti stringi di più nel maglione che indossi. Il mio maglione. È talmente vecchio da sembrare blu invece del nero originale. E poi è tutto sformato, e per te è troppo grande. Però ti è piaciuto subito, da quando te l’ho dato. Tanto che alla fine ho ceduto alle tue richieste e te l’ho regalato. E tu da quel momento lo hai sempre indossato. Anche se ti arriva alle ginocchia e la scollatura è così ampia da lasciare scoperta una spalla. Sorrido, osservando i riflessi buffi, arancio, che il fuoco ardente dipinge sulla tua pelle abbronzata.
Chissà se ti riconosceranno subito, con quel colore ambrato. Scrollo le spalle. Non credo sia la prima cosa che noteranno. Comunque, mi piacerebbe vedere le loro facce quando si accorgeranno che sei diventata meno rigida; più spontanea insomma. Non le vedrò. Perché non sai cosa implica il permesso che ti ho strappato di riaccompagnarti a casa. Perché altrimenti non me lo avresti dato. Non mi importa. Ti saprò al sicuro. E mi basta. Anche se so che forse dopo mi odierai per questo.
Mi siedo sul divano di fronte a te, mi rannicchio e per un poco faccio tacere il vortice dei miei pensieri, tornando a guardare il crepitio delle fiamme e ad ascoltare il rosso del fuoco, giocando a inseguire con gli occhi i mille riflessi dipinti sul tuo viso.
Mi addormento piano, con la mente intrappolata fra i ricordi.