CAPITOLO TRENTESIMO: UOMINI, DEI E MOSTRI.
Quando Echidna uscì dalla terra, cacciando fuori la testa come un verme, Amon Ra sarebbe voluto intervenire per annientarla. Quel mostro le ricordava troppo Apopi e, anche se aveva fattezze più femminili, era certo possedesse la stessa perversa crudeltà. Ma i gelidi venti di Whiro non gli lasciavano margine d’azione, costringendolo a concentrarsi sul Dio della Morte e dell’Oscurità dei popoli della Polinesia, e in simili scontri erano bloccati Phoenix e Andrei. Per cui, a malincuore, il Sole d’Egitto dovette distogliere lo sguardo, augurando la vittoria ai Cavalieri di Atena.
***
Strattonandolo con la catena, Andromeda riuscì a trascinare via Cristal, mezzo secondo prima che la coda di Echidna li schiacciasse, nella polvere e nel veleno. L’amico era ancora intontito per la brutta caduta e le ferite aperte sulla schiena, dove le unghie del mostro avevano affondato, non promettevano niente di buono. Ma per le cure ci sarebbe stato tempo, forse, in seguito. Adesso dovevano combattere e dovevano farlo loro. Erano finiti i tempi in cui uno dei cinque amici poteva restare e lasciare che gli altri proseguissero o si riposassero. Quel gioco, nel Giorno dell’Ira, non funzionava più. Andromeda l’aveva capito, anche se avrebbe voluto disporre di più tempo, per scavare tra le immagini confuse che gli affastellavano la mente di continuo.
Che cosa vedeva? Ricordi del passato o frammenti di futuro? E di quale futuro? Il fatto stesso che le immagini cambiassero, assieme alle sensazioni che portavano con sé, forse indicava che il futuro non era stato ancora scritto, che Caos poteva essere vinto, che loro potevano sopravvivere. Eppure, per quanto variegato fosse il mosaico di scene che gli riempiva la mente, alcune tornavano sempre.
Sospirando, e cacciando via le lacrime, Andromeda si tirò su, espandendo il cosmo e generando una nube dal colore rosato, dentro cui scintillavano sprazzi d’argento ogni volta in cui muoveva la catena. Echidna lo notò, si leccò le nere labbra carnose e poi si tuffò su di lui, le braccia tese avanti, gli unghioni pronti per affondare in quel gracile corpo.
"Catena di Andromeda! Non abbandonarmi adesso! Proteggimi e proteggi il mio amico!" –Disse il Cavaliere, liberando migliaia di strali luminosi, che aumentarono sempre più all’espandersi del suo cosmo.
Nemes, poco distante, osservò ammirata lo splendore dell’aura del ragazzo, così vivida, così intensa, così piena d’amore. Per lei, per gli amici, per Atena e per i popoli della Terra. Un cuore in grado di amare a tal punto, persino i suoi stessi nemici, non sarebbe mai stato sconfitto. Di questo la Sacerdotessa si disse certa, prima di perdere i sensi.
Fu proprio quel bagliore a risvegliare Cristal, in tempo per vedere le aguzze punte della Catena di Andromeda mitragliare le mani, le braccia, persino il viso di Echidna, falciando i suoi ribelli capelli di serpe, scheggiando le scaglie protettive e giungendo perfino a infilzarle un labbro. Rapide, sfuggenti, le maglie in puro mithril colpivano e svanivano, forti di un’esperienza di battaglia maturata in anni di scontri e, forse, anche di una mai del tutto padroneggiata intuizione.
"Meraviglioso…" –Mormorò il biondino, mettendosi in piedi accanto all’amico, che, forte proprio dei suoi insegnamenti, non si distrasse, limitandosi a sorridere mentre continuava a tempestare Echidna con le sue catene. –"Il nono senso… Andromeda, tu sei andato oltre."
"Puoi farlo anche tu. Lo farai. Io… ti ho soltanto aspettato!"
A quelle parole, Cristal annuì, sollevando le braccia sopra la testa e socchiudendo gli occhi, proprio come i suoi maestri gli avevano insegnato. Tutto il resto, gli scontri che infervoravano attorno a loro contro la progenie di Echidna, sarebbe rimasto al di fuori, persino Flare. Proprio per tornare da lei, Cristal avrebbe lottato fino alla fine.
"Scorrete, divine acque!" –Esclamò, riaprendo gli occhi e sbattendo i pugni davanti a sé, liberando un devastante fiume di ghiaccio e cosmo.
Echidna tentò di ripararsi con la coda, ma il martellare continuo delle catene di Andromeda rese lenti i suoi movimenti, quasi goffi, riuscendo a portarsela davanti solo ad attacco iniziato, quando già il primo getto di energia l’aveva raggiunta in faccia, strappandole un grido furioso. La sua pelle e il suo cosmo, abituati all’estremo calore dell’Etna, impedirono che il suo volto divenisse una machera di ghiaccio, ma l’intera guancia destra, l’orecchio e ciuffi di capelli si irrigidirono, spaccandosi poco dopo e riversando fuori schizzi di sangue verdastro, che le colò lungo il corpo, provocandole spasimi e violenti colpi di tosse.
Andromeda afferrò l’amico e si buttarono a terra, mentre la coda del mostro saettava sopra di loro, strusciando sulla sua corazza e portandogli via un pezzo d’ala. Sempre meglio che la testa di Cristal! Si disse, rialzandosi all’istante, proprio mentre la squamosa protuberanza di Echidna tornava indietro, furiosa.
"Resta giù!" –Disse, scattando avanti e liberando le sue catene, che si arrotolarono all’estremità della coda, imbrigliandola quel tanto che gli bastò per saltare in alto e farsi trascinare dal movimento di ritorno della stessa, atterrandoci sopra.
"Andromeda!!!" –Gridò Cristal, tirandosi su a fatica e osservando il ragazzo che correva lungo il corpo deforme di Echidna, usando le catene per afferrarle una mano e salire ancora più su. –"Sta’ attento, amico mio!" –Aggiunse, mentre la Madre lo individuava, allungando l’altro braccio per afferrarlo. –"Tieni le tue mani lontane da lui!" –Esclamò allora il Cigno, scattando avanti, con il braccio destro teso e intriso di gelida energia cosmica. –"Spada di ghiaccio!" –E lo calò, liberando un unico devastante fendente che si abbatté sulle dita di Echidna, mozzandogliele e congelandole le estremità.
"A buon rendere!" –Commentò Andromeda, che intanto stava scalando l’altro braccio della sposa di Tifone, incurante degli schizzi di veleno che fuoriuscivano tra le scaglie. Aiutandosi con l’ala ancora integra, riuscì a portarsi sulla sua spalla sinistra, passando le catene attorno al suo enorme collo, più e più volte, finché il suo cosmo poté generarne, poi, mentre Echidna agitava le braccia per strappar via quella catenella, si lasciò cadere sulla sua schiena, puntando i piedi sulle scaglie per tenersi in equilibrio. –"Adesso!" –Gridò, liberando le scariche di energia ad alto voltaggio, che percorsero le sue armi, investendo l’ancestrale creatura e facendola sussultare.
"Ci sono!" –Tuonò il Cigno, avvolto nel suo cosmo biancastro. Lo concentrò sul pugno destro e poi lo portò avanti, liberando un unico violentissimo flusso di energia congelante che raggiunse Echidna in faccia.
Per qualche secondo restarono così; Andromeda, sulla schiena della bestia, con il cosmo portato al parossismo, concentrato nel liberare la corrente energetica tramite la catena, e Cristal, dall’altro lato, intento a convogliare tutto il gelo che seppe produrre, superando i limiti stessi della scienza e della conoscenza. Entrambi, in quel momento, seppero di aver raggiunto e superato il Nono Senso. Entrambi, in quel momento, si sentirono due Divinità.
Con uno schiocco rumoroso, la testa di Echidna schizzò in alto, ridotta ormai a un rozzo blocco di ghiaccio, mozzata dalle intense folgori di Andromeda. Il resto del corpo sussultò per un istante, mentre l’allievo di Albione precipitava a terra, riuscendo a frenare la discesa conficcando le catene nella schiena del mostro. Ma poi anche la schiena, e tutto il resto di quell’infame creatura, caracollò, inclinandosi all’indietro, proprio su Andromeda, che perse l’appiglio e stramazzò a terra.
Con qualche osso rotto e la schiena dolorante, il ragazzo dai capelli verdi non ebbe bisogno di interpellare le visioni che Biliku gli aveva lasciato in dono, per sapere quel che sarebbe accaduto. Schiacciato da un’enorme donna serpente è in fondo un modo come un altro di morire! Si disse, proprio mentre, con la coda dell’occhio, vide una scia bianca e azzurra scivolare sul suolo, sfrecciando verso di lui.
Fu solo quando sentì i primi brividi di freddo che capì e vide una cupola di ghiaccio sollevarsi a sua difesa. Cristal lo abbracciò in quel momento, tenendolo stretto, mentre con il braccio ancora libero, levato in alto, evocava il potere dei ghiacci eterni per riparare entrambi.
"Una variante della Bara di Ghiaccio!" –Commentò, sperando che non si rivelasse un feretro per nessuno dei due.
Il corpo di Echidna si schiantò in quel momento su di loro, costringendo il Cigno a un enorme sforzo, piegato su un ginocchio, forzato a usare anche la seconda mano. Ovunque, attorno a loro, il ghiaccio ribolliva, corroso e liquefatto dal velenoso sangue e dai liquidi interni che stavano straboccando dal corpo decapitato della sposa di Tifone. L’aria, nel giro di poco, divenne irrespirabile in quell’angusto spazio, facendo tossire e lacrimare entrambi, soprattutto Cristal, che era più esposto.
Schizzi di veleno lo raggiunsero sulle braccia, annerendo e corrodendo l’armatura, ustionandogli la pelle al di sotto. Qualche goccia gli bruciò i bei capelli biondi, scivolando poi lungo la guancia e lasciandogli una strinatura violacea, mentre Cristal stringeva i denti, rantolando e trattenendo il dolore. Fu in quel momento che Andromeda fece detonare il suo cosmo, che esplose a raggiera, squassando il suolo e gettando ovunque pezzi di terra, roccia, gelo e le interiora di Echidna. Dopo di che, quando furono liberi, si accasciò sull’amico indebolito, crollando assieme tra le macerie.
"Cristal…" –Ansimò, scuotendo il compagno, il cui cosmo andava affievolendosi. –"Cristal, svegliati! Non lasciarmi! Non puoi abbandonarci così!" –Ma il Cigno non accennava a riaprire gli occhi.
Andromeda si guardò intorno, cercando qualcuno che potesse aiutarli. Ma Atena era scomparsa, Zeus stava lottando contro l’Armata delle Tenebre e tutti gli altri Dei erano impegnati in battaglia; distrarli avrebbe potuto essere loro fatale. Per cosa poi? Per salvare uno tra i tanti caduti in quella giornata senza sole?
No, si disse Andromeda, afferrando la testa dell’amico e infondendogli il proprio cosmo. Tu non cadrai quest’oggi, Cristal. Io l’ho visto! Aggiunse, liberando una scarica di energia che lo scosse, facendolo rinvenire. Non sarai tu a cadere!
"Resisti Cristal! Il dolore, le ustioni, tutto passerà e tornerai ad Asgard! Da Flare, che ti aspetta, e da tuo figlio!"
"Mio… figlio?!" –Balbettò il Cigno, sputando sangue e bava sporca.
"Sì. L’ho visto, e ho visto che diventerà un eroe come suo padre!" –Sorrise Andromeda.
Proprio in quel momento il suolo tremò di nuovo e Andromeda si voltò, temendo di dover fronteggiare qualche nuova diavoleria. Invece era soltanto acqua. Tantissima acqua. Una marea intera che fuoriusciva dalle faglie aperte, riversandosi nel deserto e pulendo via tutta la sozzura che l’aveva avvelenato. E, spinto proprio dalle acque che aveva evocato, si erse Nettuno, con il Corno di Tritone tra le mani che rigurgitava una vivida luce azzurra.
Attorno a lui apparvero tanti amici e compagni di cui Andromeda aveva perso le tracce e per cui adesso, vedendoli, poté permettersi di piangere di felicità. Pegasus, con l’armatura danneggiata e il sorriso spavaldo, benché più stanco del solito, sorreggeva Atena, dall’Egida scheggiata, mentre, alle loro spalle, Ioria e Virgo si tenevano a vicenda, respirando a grandi boccate, quasi fossero stati privi d’ossigeno per tutto quel tempo. Anche Asher e Tisifone erano tra loro, le armature d’Oro dello Scorpione e del Cancro scheggiate e imbrattate, ma ancora intrise della luce delle stelle.
Spostando lo sguardo, Andromeda notò Nikolaos, col volto emaciato e una ferita sul ventre, l’armatura danneggiata in più punti, ben lontana dallo splendore olimpico che aveva ammirato durante il loro primo incontro ad Atene. Sorrise, lieto che fosse salvo, mentre Castalia, aggrappata a Toma, zoppicava nella sua direzione. E fu ancor più lieto di vedere la donna che il Luogotenente stava portando con sé, sebbene non avesse più niente della potente Divinità olimpica che era stata, e che tuttora era.
"Demetra!" –Mormorò, prima che due figure attirassero la sua attenzione, due figure che non aveva mai incontrato. Lei, bellissima nonostante le vesti sporche e lacere e il viso ferito, e lui, al contrario, piccolo e buffo, più simile a un folletto che non a un guerriero. Eppure, notando con quanto affetto si prendevano cura l’uno dell’altra, il Cavaliere non poté fare a meno di sorridere, certo che l’amore sorgesse davvero ovunque. Anche negli inferi della terra di Albion.
Per ultimi, infine, sbucarono Euro, Vento dell’Est, e i Seleniti: Shen Gado, con le ali danneggiate della corazza e numerosi tagli sul corpo, quasi fosse stato assalito da una fiera feroce, e il possente Sin, la cui corazza, a dispetto di quelle degli altri, non aveva subito danni particolari. Sbuffando, il Selenite di Marte espresse il proprio fastidio per essere stato cacciato fuori dagli scontri proprio nel momento cruciale e aver perso tutto il divertimento. Di Mani, invece, Andromeda non trovò traccia e si rattristò, pensando che non avrebbe più rivisto i suoi figli.
Un gemito lo distrasse, mentre Cristal tentava di rimettersi in piedi. Con le lacrime agli occhi, il Cavaliere ritenne che almeno lui non era incorso in quel tragico destino.
***
Anche Nesso gemette in quel momento.
Liberato dal bozzolo d’ombra, aveva lasciato che le acque di Nettuno lo trascinassero in superficie e lo purgassero, alimentando al tempo stesso la fiamma dei suoi ricordi. Fin da giovane aveva amato il mare e quando Eracle gli aveva proposto di infiltrarsi sull’Isola di Eolo aveva prontamente accettato, nutrendosi della corroborante aria salmastra. Poi c’era stata la battaglia di Samo e l’assedio di Tirinto, la caduta, il silenzio e infine il ritorno alla vita ma, per quanto l’avesse cercata, quella sensazione non l’aveva più ritrovata, neppure negli abissi polinesiani, troppo intento ormai a combattere e poco ad ascoltare. Ma Nettuno, con quell’ondata, non aveva ripulito solo gli androni del Santuario delle Origini, anche il suo cuore.
Un colpo di tosse gli fece sputare sangue e veleno, mentre i suoi sensi scivolavano al di là delle macerie. Sentì, quasi come li stesse vedendo, i cosmi di Nestore, Marcantonio e Neottolemo accendersi e crescere di continuo, impegnati a fronteggiare il demoniaco Signore della Tempesta delle terre di Persia. Il suo nome era Azhi Dahaka, per quanto tutti lo conoscessero come Zahhak, e persino Eolo lo temeva, esitando ogni volta in cui doveva sorvolare quelle terre. Era un ladro di bestiame, malevolo e portatore di sventura, e in questo somigliava ad Eracle, l’Eracle di gioventù, quando la fama di gloria e l’egoismo lo dominavano.
Ne conosceva tante, Nesso, di storie su Eracle. Gliele aveva insegnate Gerione sulla Dama dei Mari, altre le aveva udite raccontare attorno al fuoco, nei bivacchi notturni nella corte di Tirinto, e tutte mettevano in risalto la sua irrequietezza, il suo continuo cercare oltre. Una caratteristica che il Pesce Soldato credeva di aver ereditato.
"Riposa, giovane eroe!" –Gli disse una delicata voce femminile mentre una sagoma in abiti bianchi, ormai sporchi e laceri, scivolava accanto a lui, prendendogli la mano. Gli carezzò la pelle, tremando nel sentire il veleno di Vritra che gli scorreva dentro, e continuò a cullarlo, con il sorriso affranto di una madre.
"Non… importa…" –Mormorò Nesso, intuendo quel che la Dea avrebbe voluto fare. Stranita, lei lo fissò con grandi occhi dorati, mentre il giovane distoglieva lo sguardo, perdendosi oltre la cappa di nuvole. –"Non voglio le tue cure. Conserva le forze per le guerre che verranno. Io ho esaurito il mio compito. Ma una cosa voglio chiedertela, se puoi farla per me."
Rhiannon sorrise, spostandogli i capelli dalla fronte e pettinandolo, mentre Nesso chiudeva l’unico occhio rimastogli, vinto dalla stanchezza e dal veleno. Quando si svegliò, non era più nel deserto del Taklamakan, bensì su un’isola del Mediterraneo, seduto sugli scogli, di fronte al mare maestoso dentro cui nuotavano felici i delfini. Uno di loro si avvicinò, invitandolo a salirgli in groppa; Nesso acconsentì e si perse assieme a lui oltre la linea di confine.
Sospirando, la Grande Regina si alzò, raggiungendo Arawn, mentre il cosmo di Nesso del Pesce Soldato si spegneva alle sue spalle.
***
Il sangue imbrattava le vesti di Emera, sgorgando dalle numerose ferite sul corpo e sul viso che Erebo non si era risparmiato a infliggerle. Ferite profonde, studiate, ma mai mortali. Qualunque cosa avesse in mente, prima voleva torturarla. Di questo, la Signora del Giorno era sicura.
Affannò, rimettendosi in piedi, portandosi dietro quel che restava dell’Altare del Giorno Dopo, dove solo poco tempo prima aveva adagiato Phoenix, compiacendosi adesso di quella scelta, che le aveva permesso di riottenere i suoi ricordi. Grazie a lui, e grazie al figlio che per tutto quel tempo non l’aveva abbandonato, nascondendosi, non visto, in un angolo della sua coscienza e continuando a fare appello alla sua vera natura, di Dea di Luce, non di Ombra.
"Anche per te, io combatterò!" –Mormorò Emera, espandendo il cosmo.
Erebo, a quella visione, esplose in una sonora sghignazzata, contrastandolo con la propria, ben più consistente, tenebra. –"Decisione coraggiosa, ma tardiva. Inoltre, perché sprecare le forze combattendo tra noi, quando il vero nemico è là fuori?"
"E se fosse qua dentro, invece?" –Rispose Emera, tagliente.
Il Tenebroso non disse alcunché, limitandosi ad avvolgere le sue dita nell’oscurità, sì da generare sottili lame nere, e a muovere poi di scatto il braccio, scagliandole contro la Dea. –"Danza di daghe!" –Gridò, crocifiggendola al muro alle sue spalle, l’esile corpo dilaniato dagli affondi dell’avversario. –"Sai, non devo neanche scomodare Lord Caos per il tuo tradimento. Mi occuperò io di farti avere la giusta punizione. Per una che non vuole combattere, cosa può esserci di meglio che essere costretta a farlo, osservando, impotente e sofferente, la fine di tutto quello in cui hai creduto?" –Sibilò, avvicinandosi.
Emera tentò di liberarsi ma la presa dell’oscurità era forte. Molto forte.
Troppo forte. Analizzò, concentrandosi sul cosmo di Erebo e percependo qualcosa di diverso, qualcosa di aggiunto, innaturale persino per degli Dei creatori come loro.
"Erebo… Che cosa hai fatto?"
"Sto soltanto anticipando la fine." –Le disse, afferrandola per il mento e forzandola a fissare la maschera d’ombra che gli copriva il volto. –"E adesso te ne darò un assaggio!" –Aggiunse, liberando la tenebra primordiale.
A quel punto, Emera urlò, come mai aveva fatto prima. Urlò, e le vibrazioni furono così potenti da far tremare l’intero baluardo da lei difeso, da scheggiare la Porta della Luce e far oscillare la barriera che impediva all’alleanza di entrare.
Andrei, che aveva appena annientato una legione di demoni inca, fu il primo a notarlo, gridando ad Amon Ra e agli altri compagni di tenersi pronti a cogliere l’attimo.
"Madre…" –Mormorò la voce. –"Resisti, madre! Puoi contrastarlo."
Appigliandosi a quello, Emera fece esplodere il suo cosmo, che dilagò, come un maroso di pura energia, in ogni direzione, distruggendo le mura e i soffitti della sua dimora, spingendo persino Erebo indietro. Crollò, la reggia della Signora del Giorno, e lei e il Tenebroso crollarono con essa, ritrovandosi sommersi dai detriti.
Erebo fu il primo a riaversi, liberando un’esplosione di energia che annientò fino al più piccolo frammento di roccia, ergendosi al centro di quella devastazione, con soltanto qualche graffio all’armatura. Tirò un’occhiata verso Emera e la vide riversa al suolo, con la schiena poggiata a un grosso macigno e la mano intenta a tamponarsi una ferita al costato da cui sangue divino ruscellava copioso.
"È stato divertente!" –Ironizzò, incamminandosi verso di lei, mentre il suo cosmo oscuro si avvolgeva attorno alla mano destra, mutandola in un lungo artiglio d’ombra. –"Ma come per tutte le cose belle (o almeno così dicono poiché per me non verrà mai), giunge la fine. E giunge per mia mano. Seconda a cadere degli Dei Ancestrali, lode a te, Divina Emera!" –E calò l’artiglio.
"Fermo!" –Esclamò una voce maschile, anticipando la comparsa di un velo di luce a difesa della Signora del Giorno. Anche senza voltarsi, Erebo capì chi lo avesse generato, e sogghignò.
"Etere… Perché hai abbandonato la difesa della Porta della Luce? Non starai complottando contro Lord Caos come tua sorella?"
"Complottando? Che vai blaterando, Erebo? E cos’è tutto questo sfacelo?"
"Dunque non sai…" –Sibilò il Tenebroso, la mano tesa a un fiato di distanza dal cuore della Dea. –"Che tua sorella ha tradito! Ha liberato un Cavaliere di Atena, che era nelle sue mani, e sta abbandonando la difesa del suo cancello. La percepisci? Questa corrente di luce è il suo cosmo che torna da lei. Presto anche le forze dell’Alleanza divina se ne renderanno conto e attaccheranno la Porta del Giorno!"
"Emera…" –Mormorò Etere, avvicinandosi, una palese confusione negli occhi. –"Cosa sta succedendo? Le parole di Erebo sono vere? Hai dunque abbandonato Caos e la tua famiglia?"
"Fratello, chiediti se stiamo facendo la cosa giusta! Se è davvero per questo che siamo stati generati. Io lo so, io ho ricordato. E ho visto cosa ha fatto Caos, ho udito come Erebo e Nyx hanno avvelenato la sua mente, mutandolo da Generatore a Distruttore di Mondi!"
"Taci, spergiura!" –Ringhiò Erebo, schiaffeggiandola e aprendole un trincio lungo una guancia. –"Le tue parole immonde sono bestemmie al cospetto dell’Unico!"
"E le tue cosa sono, Erebo? Tu hai reso Caos il tiranno che è adesso. Tu lo hai portato a muovere guerra agli uomini. Meglio ucciderli tutti che guardare venir meno la loro schiavitù, non è la tua opinione? Ma così facendo hai soltanto spinto gli esseri umani verso il libero arbitrio! In un certo senso, hai dato loro il potere di superarsi. E di superare tutti noi."
"Ora basta! Le tue menzogne finiscono qua, come il Giorno di cui eri signora. Giorno che ormai, nel nuovo mondo che Caos edificherà, non sorgerà più!" –E mosse il braccio dalla punta di tenebra, mirando al cuore della Dea.
"Erebo, no! Aspetta!" –Gridò Etere, scattando avanti e afferrando il Progenitore per l’altro braccio, impedendogli di affondare nel corpo della sorella. Ringhiando indispettito, Erebo si voltò, stirò le labbra e gli piantò la lama di tenebra nel cuore. –"E… Erebo…." –Rantolò il Dio della Luce del Cielo, la cui aura andava sbiadendo sempre più.
"Etere! Etere!" –Lo chiamò Emera, in lacrime, ma Erebo la spinse via con un calcio, continuando a tenere il braccio nel cuore di Etere. E risucchiando.
Aspirò tutto quel che poté: la sua forza, piegandola alla sua volontà, la sua luce, fagocitandola nell’ombra, il suo integralismo, a conferma della necessarietà delle sue azioni, e lasciò soltanto un vuoto corpo, con gli occhi vitrei rivolti al cielo. Un cielo che ormai non avrebbe brillato più con la stessa brillantezza di prima.
Soddisfatto, Erebo estrasse il braccio, sul cui palmo brillava l’ultimo riverbero della luce di Etere, e poi strinse il suo cuore, come aveva fatto con quello di Nyx, assorbendolo nella propria aura. E divenendo ancora più potente.
La sentì subito, ben più fresca e immediata, l’energia che divampava dentro di sé e che lo rendeva ancora più grande. Emera, singhiozzando, strisciò tra le rovine, per tenere un’ultima volta per mano l’adorato fratello, prima che si sfaldasse come fosse fatto di cenere, senza togliere gli occhi di dosso al Tenebroso, timorosa di una sua reazione. Se possibile, credette persino di vederlo alzare, e anche irrobustire, e vide l’armatura nera vibrare di sfumature viola e dorate, le punte delle sue componenti allungarsi e farsi affilate, i becchi della maschera irrigidirsi quasi fossero corna. Le corna del demonio. E il demonio era lui.
"Ahu ahu ahu! Creature del mondo, tremate nel terrore! L’ora di Erebo è giunta! E con essa la vostra caduta!" –Disse, sollevandosi in una nube di cosmo nero, che ribollì sotto di lui, divenendo una tetra scia quando sfrecciò in alto, sopra il Primo Santuario, abbracciando con un unico sguardo i quattro schieramenti che lo circondavano. O, per lo meno, quel che ne rimaneva.
Sogghignò, riconoscendo che delle formazioni compatte e equipaggiate che avevano marciato ore prima contro la roccaforte era rimasto ben poco. I soldati semplici di tutte le armate erano praticamente stati sterminati e anche gli Dei e i loro Cavalieri non se la passavano bene. Solo di fronte alla Porta delle Tenebre c’era ancora un certo assembramento, che avrebbe sradicato in un soffio. Ma prima voleva divertirsi un po’.
Così scese in picchiata verso la Porta del Giorno, fuori dalla quale Amon Ra e Andrei avevano radunato i pochi superstiti, incitandoli a un’ultima azione congiunta, accortisi che la protezione di Emera era caduta. Stavano correndo verso il cancello, avvolti nei loro cosmi, quando Erebo piombò su di loro, squassando il terreno e travolgendoli con fauci di tenebra. Le Amazzoni non ebbero neppure il tempo di capire cosa stesse accadendo che i loro corpi iniziarono a disgregarsi e, in un battito di ciglia, scomparvero. Rimase solo Pentesilea, con la spada in mano, circondata da tenebre così fitte da non vedere, o percepire, nemmeno i suoi compagni. La lasciò vivere, sghignazzando nel vederla piantare la lama per sbaglio nella schiena di Horus, concentrandosi sui tre caporioni. Artigliò Phoenix alla schiena, spaccando le ali dell’armatura divina e portando via anche pezzi di pelle; sferrò un calcio in faccia ad Andrei, maciullandogli il naso, e poi afferrò la sua testa, sbattendola più volte contro il pettorale di Amon Ra, fino a creparlo, prima di travolgere entrambi con un’esplosione di tenebre infernali.
Quando si sollevò di nuovo, la spianata di fronte alla Porta del Giorno sembrava un cimitero, tanto silenziosa e desolata gli apparve. Non perse neppure un secondo, sfrecciando nel cielo come una cometa nera e come tale sorprendendo e calando su Sirio e gli altri sopravvissuti al massacro di Etere, di fronte alla Porta della Luce.
Alexer tentò di urlare, ma venne investito dalla furia del Nume e spinto a terra, l’Ars Magna crepata in più punti, una gamba torta in una posa innaturale. Vidharr fu il secondo a cadere, in un cratere accanto all’Angelo Azzurro. Sirio e Ascanio tentarono una disperata difesa ma i dragoni di Cina e di Albion vennero dilaniati dalle daghe d’ebano che trapassarono i loro corpi, gettandoli nello stesso avvallamento ove giaceva il figlio di Odino e che andava sempre più riempiendosi di sangue.
Ridacchiando, Erebo atterrò proprio sul limitare della conca, osservando gli agguerriti combattenti che avevano avuto ragione delle Morrigan e di Tiamat e che Etere non era riuscito a vincere. Oltre alla sua energia, aveva assorbito anche i suoi ricordi e adesso poté rivivere lo scontro con Sirio, notando quanto il Gemello di Luce si fosse trattenuto.
"Rimedierò ai tuoi errori!" –Esclamò fiero Erebo, prima che un rumore lo distraesse, portandolo a voltarsi e trovandosi di fronte una donna di mezza età, che più che una guerriera sembrava una mendicante, con quel ridicolo caschetto di capelli castani e tre mele in mano. –"Cos’è? Vuoi soldi per caso? Sei un mercante?"
"No!" –Rispose la donna, espandendo il proprio cosmo. –"Non devi pagarmi. Tu, ombra infernale, avrai gratis le mele di Idunn!" –E gliele scagliò contro, aumentando il numero e godendo degli scoppi di energia che si generavano all’impatto con il corpo del Tenebroso. Ma per quanto tentasse, per quanta energia infondesse al proprio assalto, nessun’esplosione impensierì Erebo, che invece parve divertirsi. –"Bragi, amore mio, compagno di vita, presto sarò con te. Da quando ti ho perso, la mia esistenza non ha avuto più senso, neppure il Ragnarok lo ha avuto. Cosa può importarmene di vivere in un nuovo mondo se in quel mondo tu non ci sei? Eppure, vedendo questi ragazzi, vedendo con quanto ardore lottano per difendere i loro cari e dare un futuro a questo pianeta, ho capito che anche noi Asi abbiamo sbagliato, abbandonando il Recinto di Mezzo. Forse, se fossimo stati più umili, avremmo potuto vivere tra gli uomini e impedire tutto questo." –Sospirò Idunn, mentre un’onda di energia nera la investiva, annientando tutte le mele d’oro, tranne una, che continuò a stringere in mano.
"Un dono per me?" –Sghignazzò Erebo, con voce in falsetto. –"Che gentile. Erano eoni che nessuno me ne faceva uno, e forse non l’ho mai ricevuto, a parte la vita da Lord Caos! Non dovevi, vecchia. Ma se insisti, ne ho uno anch’io per te!" –E fu su di lei, come una nube di gas nero, e la strinse, la intrappolò, la fagocitò tra le sue spire, prima di entrarle dentro, dalla bocca, dalle narici, dalle cavità auricolari, oscurando la sua luce fin nella più nascosta intimità. Quando si risollevò, sfrecciando di nuovo in cielo, lasciandosi alle spalle anche quel campo in cui era uscito vittorioso, godette nell’udire l’esplosione del corpo dell’ultima Asinna. –"Addio. O dovrei dire… non so, come si usa dire in norreno? Non che importi, in fondo, poiché a breve tutte le lingue scompariranno, sostituite da un solo linguaggio. Quello della paura. Ahu ahu ahu!"