Capitolo VIII
GHIACCIO E VENTO
Europa centro-occidentale, ottobre 1062
Vernalis era partito dal Grande Tempio in compagnia di Pelag e Nashira, ma ben presto li aveva salutati e si era diretto di buona lena verso le terre di Francia: Parigi era la sua meta. Si fermò ai piedi di un boschetto di lecci, si avvicinò ad un albero e vi poggiò sopra una mano. Il demone era passato di là, ma sembrava aver deviato dal suo percorso. Si addentrò nella boscaglia e si fermò al centro di un piccolo spiazzo. Alzò la testa al cielo, chiuse gli occhi e concentrò la sua attenzione sulla voce delle foglie, agitate da un vento freddo e malinconico. Proseguì, ricostruendo il cammino intrapreso dal servo di Nergal grazie alla vegetazione che lo circondava. Piante, fiori, cespugli erano per lui fedeli compagni di battaglia, in grado di svelargli particolari impercettibili agli occhi.
Si ritrovò in un villaggio deserto. Si notavano tracce di ghiaccio sciolto, ma non c'era ombra di cadaveri. Tese i sensi ed i suoi occhi si appuntarono su un vecchio granaio fatiscente. Vi entrò e si guardò in giro: era una stanza rettangolare, alle cui pareti erano accatastati covoni e sacchi. Fino a poco tempo prima doveva esserci qualcuno: il grano sparso a terra in un angolo ed alcuni falcetti abbandonati con noncuranza sul pavimento denotavano che qualcosa era accaduto. Si inginocchiò e prese alcune spighe, avvolgendole del suo cosmo dorato. Poi si rialzò e si avvicinò ad un gruppo di sacchi sistemati alla rinfusa. Notò una botola, sorrise e l'aprì. "Non voglio farti del male, sono tuo amico! Su, vieni fuori!", esclamò con tono gentile.
Dalla botola fece capolino un ragazzino di circa sei anni. Aveva occhi blu e capelli color rame. Stringeva fra le mani tremanti un falcetto che istintivamente puntò contro lo straniero. "C-Chi siete voi?", chiese col terrore dipinto sulla faccia. Vernalis gli tese la mano, guardandolo con espressione bonaria e amichevole. "Sono un Cavaliere di Atena, mi chiamo Vernalis di Pisces", rispose, tentando di vincere la giusta diffidenza del bambino. A quelle parole, il ragazzino sembrò calmarsi ed abbassò l'arma che aveva in mano. "Voi siete un Cavaliere? Allora non siete in combutta col mostro che ha devastato il villaggio!", proferì a bassa voce, con lo sguardo perso nel vuoto come a rincorrere un terribile ricordo.
"Cos'è successo?", domandò l'ultimo custode dorato, aiutandolo ad uscire dalla botola. "Non lo so con certezza. Stavo aiutando mio zio a sistemare i sacchi di farina, quando d'improvviso uno strano gelo si è disteso sull'intero villaggio. Avevo un cattivo presentimento, ma lo zio mi ha costretto a nascondermi. Così ho preso questo falcetto e sono sceso nella botola. Sentivo le urla delle persone che conoscevo e volevo fare qualcosa. Mi sono affacciato dal mio nascondiglio, ho visto mio zio voltarsi verso di me e scuotere la testa per intimarmi di restare dov'ero e poi avventarsi contro una figura dalla strana armatura argentata. L'ultima cosa che ho udito è stato il suo grido straziante. E' finito tutto in poco tempo: l'intero villaggio è stato sterminato", raccontò il bambino, i cui occhi si erano velati di calde lacrime.
"Non mi sono imbattuto in cadaveri venendo qui. Forse li avrà portati da qualche altra parte", rifletté ad alta voce il Cavaliere, lasciando il bambino incerto. "Non è possibile!", ribatté con forza quest'ultimo. "Dopo che tutto era finito, sono uscito a dare un'occhiata. Gli abitanti del villaggio erano tutti qui, rinchiusi in teche di ghiaccio. Poi sono tornato a nascondermi perché ho sentito dei rumori".
"Teche di ghiaccio, dici?", replicò, allontanandosi di qualche passo e distogliendo lo sguardo. Un'orrenda verità gli si palesò alla mente: nello sciogliersi, il ghiaccio doveva aver consumato anche i corpi delle malcapitate vittime. "Come ti chiami, ragazzo?", domandò d'un tratto, voltandosi di nuovo verso di lui. "Sargas", rispose prontamente il bambino. "Bene, Sargas, ti ringrazio per le informazioni che mi hai dato, ma ora devo andare! Quell'essere dev'essere sconfitto prima che mieta altre vite!", lo salutò Vernalis, incamminandosi verso l'uscita. "Aspettate!", lo fermò il fanciullo dagli occhi blu, fissandolo con decisione. "Voglio venire con voi! Questo posto odora di morte e non ci sono altri villaggi nelle vicinanze".
Il Cavaliere di Pisces abbassò lo sguardo su di lui, pensieroso. "E' troppo pericoloso! Non posso combattere e badare anche a te!", rispose schietto, varcando rapido la soglia del granaio. "Dove siete diretto?", incalzò Sargas, raggiungendolo e strattonandolo per il mantello. Vernalis sospirò e, senza voltarsi, replicò: "A Parigi". "Bene, allora potete lasciarmi lì mentre combattete!", soggiunse il ragazzo, fiero di aver trovato un argomento con cui controbattere alla riluttanza del Cavaliere. "D'accordo, ma ad un'unica condizione: farai tutto ciò che ti dirò senza battere ciglio!", acconsentì il dorato custode, dal cui sguardo spirava autorevolezza e nobiltà. Sargas annuì. Il Cavaliere gli cinse i fianchi col braccio e lo sollevò: "Sta' pronto! Fra poco saremo a Parigi!" Iniziò a prendere la rincorsa e spiccò un poderoso salto alla velocità della luce. Il bambino non capiva cosa stava succedendo, ma d'un tratto si ritrovò sulla riva della Senna. Avevano percorso un centinaio di chilometri in una frazione di secondo. "Come avete fatto?", chiese stupito. "I Cavalieri d'Oro hanno la capacità di muoversi a grande velocità e di coprire distanze anche molto lunghe in pochissimi secondi", rispose il Cavaliere con naturalezza, avviandosi verso le mura della città con le mani alzate.
Le guardie di pattuglia alla porta videro il giovane rivestito d'oro ed il bambino avvicinarsi e si prepararono a riceverli. "Chi siete e cosa fate a Parigi?", chiese con arroganza un soldato alto e robusto, puntando contro di loro la lancia che teneva in pugno. Con voce calma e gentile, Vernalis rispose: "Sono un Cavaliere d'Oro di Atene. Mi chiamo Vernalis di Pisces ed ho urgenza di parlare col sovrano di queste terre!" La guardia lo osservò con curiosità e rise di gusto: "Non ho mai sentito parlare di Cavalieri di Atene! Dimmi chi ti manda!" Il Cavaliere aggrottò le ciglia, infastidito dal tono di sufficienza del soldato e stava per ribattere, quando una voce profonda ed autoritaria lo fermò: "Gutlac! Lascialo passare! Dice il vero: è un Cavaliere dell'esercito della dea Atena!" Un uomo ben piantato, dai capelli brizzolati e dalla folta barba, si fece largo fra le guardie ed apparve davanti a Vernalis. Il viso di Gutlac si era vestito di un pallore repentino e l'arroganza aveva lasciato il posto ad un'umile reverenza. "Perdonate il comportamento dei miei uomini, nobile Cavaliere. Sono Briac, capo delle sentinelle di Parigi, vi prego di seguirmi. Vi condurrò dal conte Baldovino". Il tono disteso e affabile di quell'uomo donò nuova bonarietà all'espressione di Vernalis.
Il cammino non durò molto a lungo. Sulla sponda della Senna si ergeva una fortezza alta e compatta, difesa da quattro torri e custodita da un folto manipolo di guardie. Briac condusse i due stranieri lungo corridoi e sale, fino ad un'alta porta di legno di faggio, ornata di borchie di metallo. Il capo delle sentinelle la aprì e si ritrovarono in un'ampia stanza, tappezzata di arazzi rossi e azzurri. Su un piccolo podio si ergeva un trono di marmo ed avorio finemente lavorato, dietro cui svettava lo stemma della casa reale di Francia: uno scudo azzurro disseminato di gigli d'oro. Vi sedeva un uomo sui cinquant'anni, dai capelli argentati e dagli occhi grandi ed espressivi di un verde vivo. Sembrava preso da gravi pensieri e non si era accorto dell'arrivo degli ospiti. Fu la voce di Briac a distoglierlo dalle sue angustie.
"Mio signore", esordì inchinandosi, "questo nobile Cavaliere di Atene desidera parlarvi". Baldovino volse lo sguardo verso i tre individui, scese dal trono, indossò un sorriso di circostanza e salutò gli stranieri, non riuscendo a nascondere l'evidente disagio che lo scuoteva. Vernalis si avvicinò, s'inchinò e parlò con voce cortese: "Nobile Baldovino, sono giunto fin qui per avvertirvi di una minaccia imminente. Un demone si sta dirigendo qui a Parigi con l'intenzione di raderla al suolo. Ha già distrutto il villaggio di questo bambino, la cui custodia vorrei affidarvi. Vi consiglio di far ritirare tutte le truppe e di mettere al sicuro i cittadini; a lui penserò io!"
Baldovino restò confuso dalle informazioni portategli dal Cavaliere: "Cosa? Un demone? A Parigi?" Vernalis annuì ed aggiunse: "Dobbiamo fare in fretta, non abbiamo molto tempo!" Il conte fece mente locale e per un attimo tentò di mettere da parte le conseguenze dello scandalo in cui la regina madre di Francia aveva gettato la corte e di concentrarsi sulla minaccia attuale. "Briac, informa il capo dell'esercito e portate i cittadini al sicuro nella fortezza di Argenteuil!" La guardia annuì, s'inchinò e corse ad eseguire gli ordini. Il conte si avvicinò poi a Vernalis, lo guardò con occhi disperati e disse: "Cavaliere, vi prego, siamo nelle vostre mani!"
Senza proferire parola, il Cavaliere di Pisces s'inchinò e si congedò, seguito dal piccolo Sargas, che per tutto il tempo non aveva aperto bocca. A metà del corridoio Vernalis si fermò, volgendo lo sguardo verso di lui. Si inginocchiò e, stringendogli le spalle, disse: "Le nostre strade si separano, Sargas! Raggiungi Argenteuil e cerca di ricucire le fila della tua vita! Addio!" Il bambino trattenne le lacrime e lo fissò per un istante, tentando di trovare parole adatte a controbatterlo; ma i patti erano chiari: Vernalis lo aveva portato con sé a Parigi con la promessa che non avrebbe contestato le sue decisioni. Sargas distolse lo sguardo e corse via, sparendo nel corridoio semioscuro.
Uscito all'aperto, Pisces si diresse ai merli delle mura, mentre i soldati si occupavano dell'evacuazione della città. Giuntovi, si voltò indietro, osservando la lunga fila umana che si dirigeva alla porta nord. Intravide Sargas dare una mano ai soldati con le persone anziane ed un sorriso orgoglioso gli illuminò il volto. D'improvviso un sinistro gelo ed un cosmo dalla tetra malvagità lo riportarono alla sua missione. Dalla radura che si estendeva di fronte alle porte della città apparve una figura non molto alta, protetta da un'armatura prevalentemente argentata.
Aveva un elmo a casco su cui erano fissati tre triangoli di colore blu, sulle tempie e sulla fronte. Il pettorale aveva la forma di un triangolo rovesciato e copriva anche le spalle su cui erano fissate due alette a forma di mezza luna. I bracciali erano circolari, adornati da una serie di piccole scaglie blu, leggermente rialzate verso l'alto. Il cinturino presentava due larghe piastre sui fianchi dai bordi blu ed una più stretta dietro. Un fregio a forma di prisma era fissato nella parte anteriore . I cosciali erano circolari e staccati dagli schinieri. Anch'essi presentavano piccole scaglie blu. Gli schinieri, alti fino alle ginocchia erano ornati da strisce blu davanti e sui lati.
"Ti aspettavo, demone!", esordì Vernalis dall'alto delle mura. L'essere volse lo sguardo in direzione della voce che lo aveva accolto e sorrise. Aveva occhi di un grigio spento e dall'elmo spuntavano ciuffi di un verde chiaro. "Un cane di Atene!", replicò, fermandosi e guardandolo con aria di sfida. "Eccoti il mio benvenuto, creatura infernale!", ribatté il Cavaliere. Il demone iniziò a percepire un intenso profumo di fiori, abbassò lo sguardo e vide un fitto tappeto di rose rosse estendersi ai suoi piedi. "Ti ringrazio per il gentile omaggio, ma i fiori mi disgustano!", ironizzò, bruciando il proprio cosmo violaceo e ricoprendo di ghiaccio il giardino creato dal Cavaliere. Le rose scomparvero, sciolte dal gelido manto.
"Allora", esclamò il servo d'Irkalla, "presumo che anche un cane di Atena abbia un nome. Come ti chiami, Cavaliere?" L'ultimo custode dorato chiuse gli occhi ed accennò un sorriso: "Il mio nome è Vernalis di Pisces e immagino che anche a demoni della tua risma abbiano affibbiato un nome", rispose, rispedendo al mittente le provocazioni. Il demone era divertito: "Mi chiamo Ibate, sono il quinto demone del ghiaccio. Non speravo di trovare un Cavaliere ad aspettarmi, avrei preferito prima giocare un po' con gli abitanti di questa città e magari bagnarmi del loro sangue innocente!" Pisces rimase inorridito dalla calma ferocia con cui l'essere infernale esprimeva le proprie convinzioni.
"Hai già fatto abbastanza per oggi. Non ti è bastato distruggere un intero villaggio? La tua sete di sangue non è ancora paga?", replicò il giovane Cavaliere con un certo disprezzo nella voce. "Le mie mani non sono mai stanche di mietere vittime! Perché dovrebbero? Non c'è soddisfazione più grande nell'udire le grida disperate di inermi moscerini e nel vedere i loro occhi spauriti e imploranti!", affermò Ibate, il cui volto rifulse di una luce sinistra. Poi bruciò il suo cosmo violaceo ed una candida distesa di ghiaccio iniziò a propagarsi e ad a risalire le mura della città. Il cosmo dorato di Vernalis creò robuste radici che spuntarono dal suolo e si posero a difesa di Parigi. Il ghiaccio le sciolse senza particolari problemi, ma non intaccò i blocchi di pietra della cinta muraria. Anche se per poco, il Cavaliere era riuscito ad impedirne il crollo. "Sei un ingenuo! Tutte le piante dell'universo non ti doneranno la vittoria! Non hai mezzi adatti per affrontarmi! Cedi le armi ed abbandonati al tuo inevitabile destino!", propose il demone, guardandolo con ironico biasimo per la sua incapacità nel condurre la battaglia. "Non mi pare che tu mi abbia già messo alle corde, demone. E poi ho ancora molte frecce al mio arco!"
"Te lo ripeto, i tuoi fiori non possono competere contro il potere corrosivo del mio ghiaccio. Hai sprecato solo anni di addestramento e non riuscirai a salvare la gente che tanto ti affanni a proteggere! La loro fuga è destinata ad interrompersi prima del previsto!", ribatté Ibate, insinuando un dubbio nel cuore del Cavaliere. Vernalis tese i sensi, afferrò delle foglie, portate via dal vento che si era fatto più intenso, e le interrogò. Nella sua mente apparvero delle immagini: su un'ansa della Senna vide un'immensa distesa di ghiaccio da cui si innalzavano spuntoni acuminati. Si trovava proprio nella direzione che aveva preso il popolo di Parigi. Scosso da quella visione, si voltò indietro e scorse Sargas che si attardava per far uscire gli ultimi cittadini. Il bambino avvertì qualcosa e si girò verso le mura: osservò lo sguardo crucciato del Cavaliere e, mosso da un istintivo timore, annuì e corse verso la testa della fila umana.
Vernalis tornò a concentrarsi sul demone, la cui crudele risata riecheggiava nel silenzio della radura. Sperava in cuor suo che Sargas avesse intuito qualcosa e stesse avvertendo Briac ed il capo dell'esercito. "Credevi davvero che non avessi avvertito la tua presenza e non avessi preso delle precauzioni?", provocò Ibate, sempre più divertito dagli eventi. "Il tuo piano non funzionerà, Ibate!", affermò il Cavaliere, ritrovando calma e decisione. "La tua stoltezza ti condurrà alla rovina, Cavaliere", gridò il demone, puntando il braccio sinistro verso l'avversario e creando attorno a lui del nevischio denso e compatto. Vernalis bruciò il proprio cosmo e petali di rose nere lo circondarono ed annullarono gli effetti del gelo di Ibate. "Che cosa?", disse quest'ultimo, incredulo. "Come hanno fatto quei miseri petali ad annullare il mio gelo?", aggiunse, contrariato e confuso dalla contromossa nemica. Un sorriso soddisfatto si disegnò sul volto del Cavaliere e nei suoi occhi azzurri il demone scorse una salda fiducia. "Le mie rose nere sono in grado di disintegrare qualsiasi materiale, ed anche neve e ghiaccio hanno consistenza solida!", rispose il giovane custode dorato, osservando l'indignazione e lo scorno che avevano velato il volto di Ibate, fino a poco prima ilare e fiero.
"Dannato moccioso! Pagherai per quest'affronto! Non avrò pietà! Rimpiangerai il giorno in cui hai deciso d'indossare quella corazza dorata!", urlò il servo di Nergal, in preda alla rabbia. Il suo cosmo violaceo iniziò ad ardere intenso ed il suolo ghiacciò. L'umidità presente nell'aria cominciò a condensarsi ed a solidificarsi. I bracciali ed i cosciali dell'armatura del demone s'illuminarono ed apparvero sottili aghi acuminati sia dal suolo che nell'aria. "Dudu Dihak [Vortice del Caos]!", gridò, lanciando il suo colpo segreto. Una miriade di aculei si avventò contro Vernalis, che si circondò di fusti e petali di rose nere. Tuttavia, la difesa si rivelò inefficace: le ridotte dimensioni permettevano agli aghi di penetrare negli interstizi delle piante e di colpire il Cavaliere, che fu sbalzato dalle mura e cadde fragorosamente ai piedi della porta sud.
Sargas tornò proprio in quel momento e, lanciando un urlo, corse in direzione del Cavaliere, col cuore gonfio di angoscia e tristezza. Si accorse che il corpo di Vernalis era avvolto da una strana aura dorata. Si fermò, sorpreso da quell'improvviso fenomeno, ed avvertì un potere terrificante provenire da quell'intenso alone dorato. "Nobile Vernalis!", gli urlò. Il custode delle vestigia di Pisces si rialzò, un po' dolorante, e senza voltarsi rivolse parole gentili al bambino: "Va' via di qui, Sargas! Questo luogo non è sicuro per te! Sbrigati!" Un po' titubante, il fanciullo seguì il consiglio e si allontanò, continuando a guardare di tanto in tanto il Cavaliere.
Il ghiaccio di Ibate sgretolò la robusta porta ed egli entrò con espressione eccitata e avida di sangue e morte. Quando si avvide che il Cavaliere era un po' provato ma del tutto incolume, rabbia e disprezzo tornarono a velargli il volto. "Sei sopravvissuto? Non è possibile!", sibilò, stufo della scomoda presenza di quel ragazzo che non faceva altro che intralciare il suo divertimento. "E' stata l'armatura a proteggermi, ed ora proverai sulla tua pelle quanto possa essere letale il bacio della natura!", rispose Vernalis, spingendolo fuori dalla città con la sola emanazione cosmica.
Ibate si rialzò confuso: sembrava che il cosmo del Cavaliere fosse cambiato, diventando più aggressivo e freddo. Avvertì una repentina paura e non se ne spiegava il motivo. "Avanti, lancia di nuovo il tuo colpo segreto!", lo provocò Vernalis, la cui aura cosmica cominciava a diventare opprimente. Il demone cercò di scrollarsi di dosso l'inquietudine che lo aveva invaso e concentrò il proprio cosmo: non voleva più giocare, quel Cavaliere andava eliminato subito. Si preparò di nuovo a lanciare la propria tecnica, quando delle nodose radici irte di spine gli cinsero le gambe, provocando crepe e graffi all'armatura. Un manto di ghiaccio le ricoprì, ma Ibate si accorse che la forza del suo gelo sembrava scemata. Guardò Vernalis con odio e gridò: "Dudu Dihak!" Gli aghi vennero avvolti da petali viola e rimasero immobili nell'aria senza muoversi per poi scomparire. Ibate sgranò gli occhi, cercando di liberarsi dalla morsa delle radici create dal Cavaliere, ma più si dimenava più il suo cosmo sembrava indebolirsi.
"Che cosa mi hai fatto, dannato Cavaliere?", domandò furente il demone, concentrando tutte le forze nelle gambe, coperte di sangue e percorse da un dolore lancinante. Vernalis aprì la mano destra che stringeva un fiore viola dal profumo intenso e suadente. "Questo piccolo fiore ti accompagnerà nel tuo viaggio di ritorno agli Inferi, ma prima ho delle domande da porti: dov'è il tuo dio? Chi comanda le vostre schiere? E soprattutto, quali sono i loro piani?"
"Mai e poi mai rivelerei ad un nemico i segreti del mio signore! Puoi divertirti a torturarmi, ma da me non caverai alcuna informazione", ribatté il demone, accennando un sorriso tirato e fissandolo con astio e furiosa rassegnazione. "Come desideri", commentò il Cavaliere. Levò la mano destra verso l'alto ed il suo cosmo creò del polline viola che andò a depositarsi sul corpo di Ibate, facendolo urlare di dolore. "Thanásimon Phílēma [Bacio Mortale]!", disse Pisces ed il sistema nervoso del demone collassò. Ibate si accasciò ormai privo di vita ed il suo corpo si dissolse.
Sargas corse dal Cavaliere. Lo raggiunse e si accorse che il terrore e la freddezza del suo potere erano cessati. "Cavaliere, state bene?", chiese con tono accorato. Vernalis annuì e si diresse lentamente verso le sponde della Senna. Il bambino lo seguì. "Gli abitanti di Parigi sono tutti salvi. Sono riuscito a fermarli prima che si avviassero verso Argenteuil", lo informò, guardandolo fisso e notando un velo di malinconia nel suo sguardo. "Come hai fatto a capire che bisognava fermarli?", chiese Pisces, tenendo gli occhi piantati sul fiume. Sargas stava per rispondere quando sopraggiunse il conte Baldovino, seguito da Briac e dal capo dell'esercito. "Cavaliere, re Filippo, io, Parigi e la Francia intera vi siamo immensamente debitori! Senza il vostro aiuto questa città e i suoi abitanti non esisterebbero più. Chiedete qualsiasi ricompensa e vi sarà accordata; e a questo bambino che ci ha dato una mano e ci ha avvertito del pericolo che si annidava sulla strada per Argenteuil verrà concesso un posto a corte!", esordì sorridendo e con tono affabile. Vernalis si voltò verso di lui, inchinandosi. Alzò lo sguardo e con voce ferma rispose: "Vi ringrazio per le vostre parole, ma per i Cavalieri di Atene la salvezza e la protezione dell'umanità sono una missione che non richiede ricompense! E' la fede in Atena e nella giustizia a muoverci, non gli allori o le ricchezze. La vita di ogni singolo essere umano, anche del più insignificante, è preziosa per noi! Spero che le mie parole non vi abbiano offeso. Comunque sia, l'aver garantito un tetto e la sopravvivenza a questo bambino è già un compenso sufficiente per me".
Il conte rimase impressionato dall'umiltà di quel giovane. Aveva un potere soprannaturale, eppure non se ne vantava e non lo usava per ricavarne un proprio tornaconto. Aveva sentito tante volte parlare dei paladini del Grande Tempio, ma aveva sempre creduto che molte delle cose che si raccontavano sul loro conto fossero esagerazioni o leggende. Tuttavia, ora aveva davanti agli occhi uno di quei tanto decantati Cavalieri e non poteva far altro che ammettere i propri errori nel giudicare le voci che aveva sentito nel corso degli anni. Volse poi lo sguardo al bambino, dicendo: "Qual è il tuo nome, ragazzo?" Un po' intimidito dall'autorità che lo stava interrogando, il fanciullo rispose: "Mi chiamo Sargas, signore!"
"Bene, Sargas, diverrai mio paggio personale e se ti farai valere potrai diventare cavaliere del regno!", disse Baldovino, il cui volto era illuminato da un sorriso. Sargas abbassò il capo, deglutendo nervosamente. Poi rialzò il volto, da cui promanò una subitanea risolutezza e con voce salda replicò: "Sono onorato della vostra offerta, mio signore, ma devo declinarla! I fatti di oggi mi hanno convinto che servire un'unica nazione, anche se è la mia, non sarebbe giusto. E' bastata una sola creatura infernale a spazzare via il mio villaggio ed a mettere in ginocchio una città e se non fosse intervenuto il nobile Vernalis a quest'ora la Senna sarebbe arrossata dal sangue di vittime innocenti. Anche per me la vita di ogni singolo essere umano è preziosa e servire la Francia mi costringerebbe ad affrontare i suoi nemici ed a stroncare anche vite incolpevoli. Non ho aiutato questa gente per ottenere privilegi, è stato il mio cuore a spingermi a farlo!"
Baldovino si fece serio ed i suoi occhi si rivestirono di ammirazione. Quel bambino era più piccolo del re di Francia, eppure dimostrava una nobiltà d'animo ed una maturità impressionanti. Sperava che un giorno anche Filippo sviluppasse così alte aspirazioni e riuscisse a governare il suo paese con amore e dedizione. "Rispetto la tua scelta, Sargas! E sappi che la corte ti accoglierà a braccia aperte, qualora cambiassi idea", disse. Poi si congedò e, accompagnato da Briac e dal capo dell'esercito, tornò in città.
Vernalis osservò Sargas, ancora in preda all'emozione per aver avuto la possibilità di parlare al reggente di Francia. "Puoi rilassarti, adesso", consigliò il Cavaliere, sorridendo. "Allora, vuoi spiegarmi come hai fatto a capire che la strada per Argenteuil non era sicura?", aggiunse, riprendendo le fila del discorso interrotto dall'arrivo del conte. Il ragazzino alzò il viso e rispose: "Quando i nostri sguardi si sono incrociati, dentro di me è balenato un timore ingiustificato. Qualcosa mi ha spinto a fermare quel corteo di anime, ma non sapevo se le mie sensazioni fossero giuste oppure no. Ho detto loro che la strada era pericolosa solo per costringerli ad arrestare la marcia, non avevo nessuna prova che lo fosse realmente". Il Cavaliere rifletté per un attimo su quelle parole, poi disse: "Hai un intuito molto sviluppato per la tua età. Notevole!"
Sargas era incuriosito dall'aura dorata che aveva visto avvolgere il Cavaliere e dal potere terrificante che ne era scaturito, così vinse la timidezza che lo spingeva a tacere e domandò: "Nobile Vernalis, cos'era quella luce dorata che vi circondava e da dove proveniva quel terribile potere che ho avvertito?" Il dodicesimo custode dorato restò di stucco: quel bambino possedeva le abilità tipiche di chi ha un cosmo prossimo a manifestarsi. Possibile che anche lui l'avesse risvegliato inconsciamente? Ciò giustificava anche l'enorme capacità intuitiva che aveva mostrato. "Te lo dirò, ma prima devi soddisfare la mia curiosità. Hai rifiutato l'offerta del conte perché vuoi diventare Cavaliere di Atena, vero?", replicò serio Pisces. Sargas sostenne il suo sguardo ed annuì. "L'addestramento da Cavaliere è lungo e difficile, richiede enormi sacrifici e potrebbe anche condurti alla morte. Sei pronto ad affrontare tutto questo?", aggiunse Vernalis. Il bambino distolse lo sguardo, fissando il suo volto riflesso dall'acqua. "La morte mi accompagna fin dalla mia nascita, perché dovrei temerla? Avevo un anno quando i miei genitori perirono in un incendio. Il fratello di mia madre e sua moglie mi accolsero come un figlio, ma anche loro ormai non ci sono più. Se devo affrontare la nera signora per garantire ad altri serenità e pace, sono pronto a farlo!" Fu questa la risposta di Sargas. "Sei un ragazzino risoluto e maturo per la tua età. Mi hai convinto, ti porterò con me al Grande Tempio", concluse soddisfatto il Cavaliere.
Il bambino lo guardò con orgoglio ed un sorriso sbarazzino gli si dipinse sul volto. "E ora risponderò alle tue domande", riprese Vernalis. A quelle parole, l'espressione del fanciullo tornò seria e la sua attenzione si fece più intensa. Il Cavaliere cominciò: "L'aura dorata che mi avvolgeva è la manifestazione fisica del cosmo. Ogni essere umano racchiude dentro di sé un piccolo universo, ma solo in pochi riescono a risvegliarlo. Questo universo è il cosmo, un potere che rende capaci di compiere imprese straordinarie. I Cavalieri di Atena non sono gli unici a saperlo manipolare; molti sono gli dei su questa terra e diverse le schiere che li accompagnano in battaglia. Il nostro compito è sventare ogni minaccia divina volta all'annientamento della razza umana". Fece una pausa per permettere al fanciullo di comprendere fino in fondo le sue parole. Sargas sembrava riflettere sul discorso, ma la risolutezza nei suoi occhi blu non scomparve, bensì si rafforzò.
Fissando lo scorrere del fiume davanti a sé, Vernalis riprese a parlare: "Sono nato in terra germanica, in un ridente e rigoglioso villaggio sito sulla sponda di un fiume molto simile a questo, il Neckar, ai piedi della Foresta Nera. Il mio villaggio viveva di commercio, grazie al fiume che permetteva di raggiungere Stoccarda. Avevamo persino un medico, visto che la città era molto lontana. Mio padre era un rinomato artigiano e sperava che io, il suo unico figlio, ne seguissi le orme. Tuttavia, io non amavo lavorare il ferro e mal sopportavo il calore della fucina; preferivo di gran lunga immergermi nella natura ed esplorare gli angoli più nascosti della Foresta Nera. Trovavo i fiori, gli alberi e le piante meravigliosi, e dietro casa mia avevo approntato un piccolo giardino, dove piantavo gli esemplari più belli che riuscivo a reperire. A volte chiedevo consiglio al medico del paese, che si dilettava anche di botanica. Era questa la mia vita finché un giorno tutto cambiò.
Mi ero spinto lontano dalla zona che di solito visitavo. Avevo voglia di trovare qualcosa di nuovo, fiori e piante insolite o particolari. Giunsi in un'immensa vallata verdeggiante, delimitata da un boschetto di querce. L'aria era pregna di un profumo dolce e inebriante. Notai, ai piedi degli alberi, cespugli di strani fiori viola. Mi avvicinai: avevano uno stelo di un verde intenso ed irto di spine, su cui si dispiegavano cinque petali di un viola scuro a forma di mano aperta. Quando il vento li carezzava sembravano davvero mani che invitavano chi li guardava ad appressarsi. Portavo sempre con me un cesto ed uno strumento di mia invenzione che usavo per scalzare le radici delle piante che raccoglievo. Rapito dalla bellezza e dalla fragranza di quel fiore, mi misi all'opera. Benché le mani mi facessero male e sanguinassero a causa delle innumerevoli punture delle spine aguzze di quei fiori, non mi diedi per vinto e alla fine riuscii a coglierne un paio. Felice di quei nuovi cimeli, corsi a casa per ripiantarli prima che appassissero. Mi recai nel mio piccolo giardino e con solerzia diedi loro nuova terra dove poter vivere rigogliosi. Poi varcai l'uscio di casa mia, ma una vertigine ed un senso di mancamento mi fecero crollare al suolo. Sentii le grida di mia madre perdersi nel tetro sonno in cui stavo cadendo.
Arrivò il medico, mi visitò, ma non riuscì a trovare nulla. I segni delle punture dalle mie dita erano spariti. Conoscendo la mia passione per la natura, chiese a mia madre se anche quella mattina ero uscito a fare la mia consueta esplorazione. Alla di lei risposta affermativa, corse subito nel giardino dietro casa mia, ma lo spettacolo che vide lo fece trasalire. I fiori che avevo colto quella mattina venivano chiamati "Teufelhands [Mani del Diavolo]" e le loro spine erano letali per chiunque. Si fece portare subito della legna e bruciò l'intero giardino.
Sarei dovuto morire in poche ore e invece la mia agonia durò quattro giorni. Ero perennemente scosso da incubi e nessun rimedio sembrava lenire la mia sofferenza. E poi tutto finì, così com'era iniziato. All'alba del quarto giorno la febbre scomparve e tornai finalmente a rivedere il sole e le persone che amavo. Erano tutti increduli. Molti pensarono ad un miracolo della provvidenza divina, altri restarono più dubbiosi ed incerti.
La mia vita aveva ripreso il suo corso, ma io sentivo che qualcosa dentro di me era cambiato. La natura, che prima ammiravo solo per l'incanto che sapeva trasmettermi, aveva preso coscienza e mi parlava. Ogni volta che toccavo un albero o udivo lo stormire delle foglie, sentivo voci, suoni, strane percezioni. Tutto ciò che mi dicevano si avverava in un modo o nell'altro. Notavo che anche le persone che conoscevo fin dalla nascita cominciavano a guardarmi con occhi diversi: sembravano impauriti e a disagio quando c'ero io oppure parlavano a bassa voce se mi vedevano passare. Era frustrante sentirsi d'un tratto escluso da tutto e da tutti. Mi rifugiai sempre di più nella mia passione per la natura, ricostruii il giardino, ma dentro di me sapevo che nulla sarebbe tornato come prima.
Un giorno, un'improvvisa epidemia si palesò nella vita semplice del mio villaggio. La gente iniziava ad ammalarsi ed il medico non era in grado di curarli. Molti persero la vita e, fra loro, anche i miei genitori. Io ero l'unico a sembrare immune a questa grave catastrofe e ciò suscitò nei superstiti nuove illazioni sul mio conto. Credevano che fosse stato il diavolo a risparmiarmi e a darmi la facoltà di annientare l'intera comunità. Decisi di andare via, stanco delle occhiate bieche e delle frasi a mezza bocca, e di lasciarmi alle spalle tutto il disprezzo che mi gravava addosso.
Ero seduto sulla riva del Neckar, in lacrime, quando sentii arrivare qualcuno. Era un Cavaliere di Atena, si chiamava Midra di Equuleus. Mi disse che il Sommo Sacerdote di Atene aveva udito il pianto del mio cuore e voleva conoscermi. Ero talmente deluso che, pur non sapendo nulla di Atena e dei suoi Cavalieri, lo seguii senza fare domande. Pensavo di non aver più niente da perdere ormai. Fu il vicario della dea della giustizia, il sommo Alexer, a rivelarmi la verità su quanto mi era accaduto.
L'epidemia era stata scatenata da un'imbarcazione infetta approdata nel porticciolo del villaggio, non da me. Inoltre, la valle in cui avevo trovato i Teufelhands è da sempre dominio di Ade, il dio greco dell'Oltretomba ed acerrimo nemico di Atena. Circa ogni 250 anni in quella zona appare la sua dimora per accogliere la sua rinascita. Quei fiori provengono dagli Inferi e sono un monito per tutti coloro che vi si avventurano. Io sono sopravvissuto perché il cosmo latente dentro di me si è risvegliato e ne ha assorbito gli effetti nocivi. Ed è per questo che ogni volta che arde intenso diventa freddo e terrificante: il potere nefasto e letale di quei fiori si sprigiona ed annienta tutto ciò che lo circonda. Il cosmo del demone che ho affrontato si è dapprima indebolito e poi il polline da me creato ha aggredito il suo sistema nervoso disintegrandolo".
Sargas aveva ascoltato il racconto in silenzio. Fissò la propria immagine riflessa dall'acqua: "Dovevate sentirvi molto solo, all'inizio", esclamò, quasi senza badare alle parole che stava pronunciando. "Non solo all'inizio. Anche durante il periodo di addestramento cercavo di limitare i contatti coi miei compagni per timore di far loro del male, ma grazie alla saggezza del Sommo Sacerdote ed al sostegno dei miei amici ho compreso che il cosmo rispecchia l'animo di chi lo possiede. Il cosmo di chi ha un cuore votato alla giustizia e al bene è gentile con gli innocenti e spietato con i malvagi!", rispose Vernalis. "Capisco", replicò il bambino, senza aggiungere altro. "Ora andiamo. Il Grande Tempio ci aspetta!", riprese Pisces con un sorriso. Sargas annuì e dalle sponde della Senna saettò verso sud-est una luce dorata.
Nashira lasciò la sala contrariato e deluso, tenendo l'elmo dell'armatura saldamente stretto sotto il braccio. Il conte di Barcellona, Raimondo Berengario, non aveva dato credito alle sue parole e lo aveva trattato con sufficienza e superbia. Stava percorrendo il corridoio che lo avrebbe condotto all'uscita, quando una voce giovane e sarcastica lo distolse dai suoi pensieri:
"Allora è vero che il figlio di Kemen il Battagliero è tornato all'ovile!" Il Cavaliere alzò lo sguardo e vide due figure: una era appoggiata alla parete, l'altra gli stava vicino e teneva uno scudo. La sua attenzione si appuntò sul ragazzo che aveva pronunciato quella frase. Aveva occhi verdi e capelli lunghi fino alla nuca di un castano chiaro. Nashira ebbe un moto di sorpresa nel riconoscere il volto del suo amico d'infanzia. "Rodrigo? Cosa ci fai qui a Barcellona?" Il ragazzo si scostò dalla parete e si avvicinò a lui: "Il principe Sancho ha deciso di muovere guerra a suo zio Ramiro ed è in cerca di alleati. Sono stato mandato qui per chiedere aiuto al conte", rispose, squadrandolo dalla testa ai piedi.
Erano passati sette anni dall'ultima volta che si erano visti. Erano cresciuti insieme come fratelli, benché Nashira fosse più giovane di Rodrigo di sei anni. D'un tratto, gli allenamenti con la spada che Kemen lo aveva costretto a sostenere fin dalla più tenera età gli tornarono alla mente e si rivide su quello spiazzo polveroso antistante la loro casa, la pesante lama impugnata nella destra ed il polso dolorante. Sentiva ancora le esortazioni del padre e dell'amico a colpire e a difendersi ed un velo di malinconia gli coprì il volto.
"Non troverai alcun aiuto, qui. Il conte Berengario è troppo assuefatto alla sua politica di non belligeranza. Non si lascerà mai coinvolgere in una guerra intestina fra la Castiglia e l'Aragona. Hai fatto un viaggio inutile!", replicò con tono secco e distaccato il Cavaliere di Capricornus. Rodrigo fece una smorfia di disappunto e sfiorò con le dita uno dei coprispalle dell'armatura dell'amico: "E' d'oro vero questa corazza? Quale regno o signore stai servendo adesso? Da quando tuo padre morì sotto le mura di Siviglia sei sparito!", domandò, analizzando ogni singolo pezzo di quell'insolito usbergo.
"E' frutto di una lega di metalli rari, difficili da reperire. Sono un Cavaliere di Atena, dea della giustizia, adesso", rispose asciutto Nashira. Rodrigo restò confuso e, con tono irriverente, sbottò: "Mi prendi in giro? Come ti vengono queste trovate balzane?" Il Cavaliere chiuse gli occhi, consapevole che l'amico non avrebbe mai compreso le sue spiegazioni, e si limitò ad aggiungere: "Ti basti sapere che servo l'umanità. Ogni uomo, chiunque esso sia, sono chiamato a difendere! E' stato un piacere rivederti, ma ora devo andare!"
Il Cavaliere fece per riprendere il cammino, quando la voce di Rodrigo divenne d'un tratto seria e triste: "Sei cambiato, Nashira. Da bambino non facevi altro che agitare la spada che ti aveva regalato tuo padre per diventare il miglior spadaccino di Spagna e ora davanti a me vedo un giovane uomo che si erge a protettore dell'intera razza umana e che ha lasciato da parte ogni velleità di primeggiare. Cosa ti è successo?"
Nashira si voltò e dai suoi occhi neri s'irradiò una luce che sorprese l'amico. "Gli insegnamenti di mio padre li porterò sempre con me, ma esistono cose più importanti della gloria e della fama. Ho imparato che tutti abbiamo dei limiti oltre i quali è difficile andare. Mio padre stesso ne è stato la prova: ha vinto innumerevoli battaglie, si è distinto per coraggio e dedizione, ma il suo profondo odio per gli infedeli gli è costato la vita. Era così concentrato ad annientare i suoi nemici di sempre che non si accorse della lama amica che gli trapassò il cuore. Questo era il suo limite. Io ho conosciuto uomini che non potrò mai superare in battaglia, perché la natura li ha forniti di una forza straordinaria ed all'inizio ero roso dall'invidia. Volevo superarli, ma più mi intestardivo, più la mia forza scemava. Poi un mio compagno d'arme mi aprì gli occhi: se avessi continuato a farmi vincere dai miei sentimenti, non sarei mai diventato forte. Se oggi sono qui è perché ho vinto le mie insicurezze ed ho ben chiari i miei limiti", affermò con calma e lucidità. Poi si girò di nuovo e riprese il cammino. "E ora dove vai?", riprese ad interrogarlo Rodrigo, raggiungendolo. Senza voltarsi, il custode delle vestigia di Capricornus rispose: "Su questa città incombe una minaccia. L'attirerò nei pressi del Besòs e le impedirò di fare danni". "Una minaccia? Quale minaccia?, incalzò il giovane castigliano. "Non c'è tempo per le spiegazioni, addio!", tagliò corto Nashira, spiccando un salto e scomparendo alla vista.
"Isidro!", tuonò Rodrigo, chiamando il ragazzo che lo accompagnava. Il giovane accorse e fece un inchino. "Dammi lo scudo ed anche la tua spada. Riferisci al conte Berengario che presto gli porterò la testa di un nemico. Sono sicuro che acconsentirà a darci una mano nella battaglia contro Ramiro d'Aragona. Portami il cavallo!" L'atteggiamento scostante e la fretta di andare via dimostrate dall'amico di un tempo lo avevano insospettito. Era convinto che nascondesse qualcosa e che stesse lavorando proprio per conto dei nemici del suo signore. Non appena Isidro gli portò il cavallo, lo montò e corse via a spron battuto.
Giunto sulle rive del Besòs, Nashira fece bruciare il proprio cosmo per attirare l'attenzione del demone che si dirigeva verso Barcellona. L'attesa non fu lunga. Un vento intenso scosse le cime degli alberi ed una figura alata, alta e vigorosa si parò davanti al Cavaliere con un'espressione gelida sul volto.
Indossava un'armatura prevalentemente grigia con inserti viola. L'elmo aveva la forma di una testa d'uccello, col becco ricurvo che creava una sorta di visiera. Il pettorale copriva il torace e si allungava fino ai fianchi, coprendo la schiena, ma lasciando scoperto il ventre. I coprispalla erano composti da due piastre sovrapposte a forma di ali. I bracciali proteggevano le braccia fino al gomito ed erano muniti di artigli affilati di colore viola che coprivano le dita del demone. Il gonnellino, formato da piccole frange metalliche, presentava nella parte posteriore una coda d'uccello. Gli schinieri, alti fino alle ginocchia, avevano davanti e ai lati artigli viola ricurvi verso l'alto. Agganciate alla schiena svettavano imponenti ali di sparviero. Erano presenti triangoli sui coprispalle, al centro del cinturino e sui coprimani dell'armatura, tutti di colore viola.
"Contavo che saresti venuto!", esordì il Capricorno, fissandolo con aria di sfida. "Non vedevo l'ora di saggiare la forza di un Cavaliere! Come ti chiami, ragazzo? Io sono Dadasig, terzo demone del vento!", fu la risposta dell'essere infernale. "Ed io Nashira di Capricornus, Cavaliere d'Oro di Atena!", replicò il giovane paladino della giustizia, facendo bruciare il proprio cosmo e lanciandosi all'attacco. Spazzò l'aria col braccio destro e lame d'energia puntarono il corpo di Dadasig, che sorrise e si preparò a parare. Allargando le braccia, eresse una barriera di vento che, tuttavia, sembrò inefficace contro il colpo del Cavaliere: le lame l'attraversarono, ma il demone riuscì a schivare, librandosi in alto grazie alle ali dell'armatura.
"Per essere solo un ragazzino non sei male! Sei degno del titolo di Cavaliere d'Oro. Nessuno era mai riuscito a penetrare la mia barriera. Tuttavia, la mia sete di vendetta non ha limiti! Schiaccerò tutti voi Cavalieri per aver assassinato Umma, che consideravo alla stregua di un fratello!", commentò il demone, facendo ardere il suo cosmo arancione pallido. "Anche noi abbiamo perso dei compagni, ma la morte nel corso di una guerra è più che naturale! Chi non la accetta e vive di cieca vendetta non ha speranze di vittoria", ritorse Nashira, lanciando un poderoso fendente contro l'avversario, che prontamente schivò aiutato dalle maestose ali. Una smorfia di disappunto si delineò sul volto severo del ragazzo: "Devo sbarazzarmi di quelle ali, se voglio portarmi in vantaggio!", pensò, caricando di nuovo il cosmo nel braccio destro.
Seguendo il corso del fiume, Rodrigo era arrivato in prossimità del luogo dello scontro. Si fermò, scese da cavallo, lo legò al tronco di un albero, sotto cui verdeggiavano rigogliosi cespugli e si nascose dietro una sporgenza di roccia, da dove poteva guardare ciò che accadeva. Voleva aspettare il momento opportuno per intervenire ed affrontare la "minaccia" cui aveva accennato Nashira. Osservava lo scontro che si stava consumando, ma non ne afferrava la dinamica: l'amico sembrava immobile col braccio alzato, eppure attorno al suo avversario si erano aperte improvvise crepe nel suolo. Si chiedeva cosa significasse quello strano fenomeno e chi ne fosse l'artefice. Le parole del suo vecchio amico gli erano sembrate incomprensibili: cosa significava "servire l'umanità"? E perché si era comportato in modo freddo e scostante? Gli aveva mentito per non destare sospetti? Eppure il ragazzino che era cresciuto con lui non avrebbe mai detto bugie! D'un tratto si ricordò della luce che gli aveva visto negli occhi ed un dubbio s'insinuò nel suo cuore: forse si era sbagliato? Nashira gli aveva detto la verità? Doveva scoprirlo! Saltò fuori dal suo nascondiglio, sguainando la fedele Tizona, la spada donatagli da Donna Urraca il giorno in cui era stato nominato cavaliere. D'un tratto, però, si ritrovò a terra, spinto via da una forza invisibile.
"Va' via, Rodrigo! Questo non è posto per te!" La voce di Nashira gli arrivò ovattata e lontana. Si rialzò un po' frastornato, scuotendo la testa come per riprendere lucidità. Il demone approfittò dell'attimo di distrazione del Cavaliere per scatenare contro di loro un turbine di vento. Avvistosi del pericolo, Nashira balzò accanto all'amico e lo portò in salvo, mentre il vento spazzava via ogni cosa. Il cavallo di Rodrigo s'imbizzarrì, spezzò la fune che lo legava e corse via al galoppo. "Chi è il tuo signore, Nashira? Sono sicuro che mi stai nascondendo qualcosa!", proferì con tono frustrato e infastidito il giovane castigliano. Il Cavaliere di Capricornus lo fissò serio e rispose: "Nasconditi dietro quella fila di alberi laggiù e quando mi sarò sbarazzato di quell'essere ne riparleremo! Presto!" Rodrigo annuì e corse verso il luogo indicato, una fitta boscaglia che correva lungo il corso del fiume, creando un corridoio di terra fra la riva e gli alberi.
Nashira tornò a concentrarsi su Dadasig e fece ardere il suo cosmo dorato. "Vedo che finalmente possiamo combattere senza altre interruzioni!" esordì il demone del vento, fissando il Cavaliere e muovendo un passo verso di lui. "Preparati a pagare per l'assassinio del mio compagno! Non avrò pietà!" Un cosmo arancione pallido s'innalzò attorno a lui e gli artigli sparsi sull'armatura s'illuminarono e presero vita. "Umbin Garashak [Artiglio della Catastrofe]!", gridò il demone. Gli artigli si moltiplicarono ed iniziarono a vorticare nell'aria creando turbini di vento ed energia cosmica. L'acqua del fiume, spinta dalla forza del colpo del demone, s'innalzò mescolandosi alle zolle di terra, ai rami e alla polvere sollevate dalla fiera corrente d'aria. Nashira tentò di coprirsi il volto, bersagliato dal pulviscolo, e di tenere ancorate le gambe al suolo. D'improvviso, gli artigli che si erano staccati dall'armatura e moltiplicati nell'aria iniziarono a bombardare le parti lasciate scoperte dall'armatura del Cavaliere. Un dolore fitto e paralizzante s'impadronì dei suoi arti, impedendogli il minimo movimento. "Ed ora il colpo di grazia!", proruppe Dadasig, nei cui occhi bianchi come neve balenò una luce di trionfo.
"Non è ancora finita, demone! Sei stato sciocco a mostrare le tue armi così presto! Te lo ripeto: chi vive di cieca vendetta non ha speranza di vittoria!" La voce salda e la stoica resistenza che Nashira mostrava impressionarono Dadasig e lo spinsero ad intensificare ancora di più l'attacco. Il turbine levò in alto il giovane Capricorno e lo gettò violentemente tra le acque del fiume. Il demone rise tronfio, eccitato all'idea di aver eliminato uno dei guerrieri della casta più potente dell'esercito di Atena, e volse lo sguardo verso Rodrigo, nascosto fra la boscaglia. "Ora tocca a te, misero umano!", sibilò con tono gelido. Rodrigo impugnava saldamente Tizona in una mano e nell'altra teneva lo scudo su cui era disegnato lo stemma del regno di Castiglia: un castello d'oro merlato alla guelfa. Dadasig levò il braccio per colpire, quando una lama d'energia lo centrò alla schiena spaccandogli un'ala.
Il demone si voltò di scatto, furioso di collera, e vide Nashira avvolto da un'intensa aura dorata col braccio teso verso l'alto rifulgente d'energia. "Verme! Sei ancora vivo?", sbottò il servo d'Irkalla, lanciandogli contro miriadi di artigli viola. Il Cavaliere spazzò l'aria, distruggendoli tutti in un colpo solo. "Rodrigo, torna al tuo nascondiglio! Questa battaglia è mia!", ordinò poi il Capricorno, fissando l'amico con occhi che non ammettevano repliche. Il ragazzo abbassò le armi e tornò nella boscaglia, seppure di malavoglia.
"Sono stanco di giocare, ragazzino! Stavolta non te la caverai!" In preda all'ira, Dadasig si preparò a lanciare di nuovo il proprio colpo segreto, ma Nashira saltò, fece una capriola ed agganciò i piedi sotto le braccia del demone, scagliandolo in aria. Atterrato, si diede una nuova spinta e col braccio teso, avvolto d'energia, iniziò a girare su sé stesso e davanti a lui apparve una lama d'energia: "Hypértaton Excalibur [Suprema Excalibur]!" La spada di energia passò da parte a parte il demone, il cui corpo si dissolse all'istante, come una goccia d'acqua a contatto con l'oceano. Nashira tornò a terra placando il proprio cosmo e fu raggiunto dal giovane condottiero di Castiglia, incredulo e confuso dal combattimento cui aveva assistito.
"Quale immane potere!", esclamò Rodrigo, che in quel guerriero non riconosceva il suo vecchio compagno d'infanzia. Ricordava un ragazzino sempre incerto, mai soddisfatto dei risultati ottenuti e spesso iroso e intrattabile. Ora invece vedeva un adolescente calmo e lucido, dotato di una forza che nessun uomo avrebbe mai potuto eguagliare. Gli si fece più dappresso e, col capo chino, si scusò, dicendo: "Perdonami se ho dubitato di te. Quando sei andato via, la tua freddezza e le tue parole mi hanno insospettito, credevo stessi lavorando per l'Aragona".
"Non cambi mai! Anche quando eravamo bambini ti fidavi poco di tutti. Dovresti sapere che non è mia abitudine mentire e se non ti ho raccontato certe cose è solo perché non riusciresti a capirle. L'unico scopo per cui sono tornato era salvare gli abitanti di Barcellona e, di riflesso, tutta la Spagna", replicò Nashira, la cui voce si era ingentilita e sul cui volto era apparso un lieve sorriso. "E poi non avrei mai servito nessuna corte. Se ben ricordi era la cosa che più detestavo: dovermi spostare di città in città solo per assecondare i rigidi principi di mio padre. La sua integrità ed il suo onore cristiano gli impedivano di combattere contro i propri fratelli ed ogni volta che due regni entravano in conflitto lui se ne andava. Aveva un unico scopo nella vita: punire gli infedeli per le atrocità commesse!", aggiunse con un velo di tristezza negli occhi.
"Ricordo bene le sue parole. Anche mio padre trovava eccessivi alcuni dei suoi principi morali. Ma dimmi, Nashira, perché sei andato via quella sera di sette anni fa? Per anni ho creduto che fossi morto; chiesi anche a mio padre notizie su di te, ma mi disse di non sapere niente", replicò il giovane paladino di Castiglia, palesando una domanda che a lungo non aveva trovato risposta. Nashira sembrò turbato e riprese il suo atteggiamento distaccato, distogliendo lo sguardo e spostandosi di qualche passo. "Cos'è successo quella sera? Perché non vuoi dirmelo?", incalzò Rodrigo, frustrato dalla reticenza dell'amico.
Il Cavaliere, conoscendo l'indole sospettosa di Rodrigo, fece un profondo respiro e disse: "Tuo padre conosce la verità. Chiedilo a lui!" Il guerriero di Castiglia si accigliò e, continuando l'offensiva, ribatté: "Dovrai dirmelo tu, perché mio padre è morto quattro anni fa! Se lui c'entra qualcosa, voglio saperlo! Ora!"
Nashira, messo alle strette, dovette cedere e malgrado la verità sarebbe stata amara per l'amico, decise di rivelargliela: "Come ben sai, nessuno aveva saputo dirmi chi avesse ucciso mio padre. Dicevano tutti che nel bel mezzo di una battaglia non sempre è facile capire da dove giungano i colpi. Poi tu chiedesti a tuo padre di prendermi in casa con voi e lui accettò senza obiettare: d'altronde dopo la morte di mio padre ero rimasto orfano, visto che mia madre morì per mettermi al mondo.
Quella fatidica sera non riuscivo a dormire. Ero affacciato ad una finestra e guardavo il cielo adorno di stelle. Avevo gli occhi bagnati di lacrime e stavo pensando a cosa fosse successo. Tuo padre tornava da una delle sue solite serate passate a bere con i commilitoni ed era ubriaco fradicio. Camminava con una coppa in mano biascicando le parole di un canto militare. Appena lo vidi, mi asciugai gli occhi e lo salutai. Mi chiese cosa facessi alzato a quell'ora, quando l'argentea luce della luna m'illuminò il volto. La sua espressione divertita e allegra si rabbuiò e la coppa gli cadde dalle mani. Domandai se si sentisse bene, ma d'improvviso s'inginocchiò davanti a me e scoppiò in lacrime.
Con un groppo alla gola, mi rivelò che il pugnale che aveva trafitto a tradimento il cuore di mio padre era stato brandito da lui. Il re di Castiglia gli aveva ordinato di eliminarlo: non aveva sopportato che mio padre gli avesse preferito il suo avversario, il re di León, più attivo nella lotta contro gli infedeli. Tuo padre si era opposto a quest'ordine, ma il re lo aveva minacciato di uccidere te e tua madre. Non aveva avuto scelta e, per non destare sospetti, aveva adoperato un pugnale arabo per assassinarlo. Si scusò più volte, ma il dolore che provai in quel momento mi spinse ad abbandonare tutto e ad andare via all'istante. Così corsi in camera mia, raccolsi le mie poche cose e fuggii via".
Rodrigo rimase di sasso. Aveva notato che suo padre, dopo la morte dell'amico, era diventato chiuso e burbero, ma non avrebbe mai immaginato che si portasse dietro un tale fardello. Abbassò il capo, poi sguainò la spada che aveva riposto nel fodero dopo essere tornato nella boscaglia e, inginocchiatosi, la porse all'amico: "Questa è Tizona, la spada donatami due anni fa da Donna Urraca per la mia investitura a cavaliere di Castiglia. Ha un valore immenso per me, ma te la cedo per ripagare all'infamia arrecata da mio padre!", disse, sollevando il volto, colmo di tristezza.
Nashira sorrise e dai suoi occhi trasparivano una serenità ed una fermezza strabilianti: "Non possiamo cambiare ciò che è stato e tu non hai colpa di quanto è successo. I nostri genitori hanno seguito il loro destino e non possiamo rimanere attaccati al passato, anche se abbiamo subito ingiustizie. Dobbiamo guardare al futuro, a ciò che il fato ha in serbo per noi. Tu sei Rodrigo Díaz de Vivar, figlio di Diego Laínez, e sono certo che quella spada ti aiuterà a forgiare il tuo futuro. E poi, io ho già una spada: l'invincibile lama tramandatami dall'epoca del mito, Excalibur!"
"Excalibur?! Ma io non vedo nessuna spada!", esclamò confuso. Si rialzò e rinfoderò Tizona, guardandosi intorno. Il Capricorno rise, divertito dal viso incerto di Rodrigo. "Nelle mie braccia risiede il filo di Excalibur, la spada sacra che Atena donò ad Askos, il primo custode di quest'armatura, per celebrarne il valore e la fedeltà. Quel dono è giunto fino a me e passerà alle future generazioni di Cavalieri di Capricornus!" Rodrigo aveva compreso poco della spiegazione datagli dall'amico, ma il trasporto con cui aveva parlato gli bastò.
"Addio, amico mio! Il mio dovere è compiuto, devo andare!", lo salutò il Cavaliere preparandosi a partire, ma Rodrigo lo fermò e, serio, gli rivolse queste parole: "Forse non ci rivedremo mai più e vorrei almeno rivivere i giorni in cui ci allenavamo insieme. Ti sfido a duello! Ho giusto un'altra spada qui con me! Tieni!" Nashira era incuriosito dalla richiesta dell'amico e, osservando la lama che gli veniva offerta, accettò senza esitazioni. Si spogliò dell'armatura, che si ricompose a totem, stupendo Rodrigo, e si mise in posizione. "Che vinca il migliore!", esclamò il condottiero di Castiglia, scagliando il primo affondo. Il rumore del fiume accompagnava il suono delle lame come una stridula melodia.
Sorush aveva assistito agli scontri dal suo nascondiglio ed un groviglio di pensieri gli era sorto nella mente. A distoglierlo giunse Kharax, scuro in volto e palesemente contrariato. "Hai soddisfatto la tua curiosità?", disse in tono secco il Sacerdote di Nergal, ma l'ex Cavaliere gli lanciò un'occhiata torva e non rispose. "Torno da Lamashtu", sbottò d'un tratto, scomparendo grazie al prisma fornitogli da Sorush.