ANNIVERSARIO
Nota: La storia è ambientata dopo la battaglia delle Dodici Case.
Han sradicato un albero.
Ancora stamani il vento, il sole, gli uccelli
L’accarezzavano benignamente.
Era felice e giovane, candido ed eretto,
con una chiara vocazione di cielo
e un alto futuro di stelle.
Stasera giace come un bimbo esiliato dalla sua culla,
spezzate le tenere gambe,
affondato il capo, sparso per terra e triste,
disfatto in foglie
e in pianto ancora verde, in pianto.
Questa sera uscirò – quando nessuno potrà
Vedere;
quando sarò solo – a chiudergli gli occhi
ed a cantargli quella canzone
che stamane passando il vento sussurrava.
da Spagna, poesie oggi
Nel cielo scuro e vellutato esplodevano in scintille variegate i fuochi artificiali. Scie di umane comete, fontane brillanti, corolle di effimera luminosità si avvicendavano armoniose,sfavillando nell’eco del suono precedente. E la luce si riversava, fiabesca, accompagnata da uno scrosciare come di pioggia, sulla città ebbra di musica e festeggiamenti.
Il suono dei botti giungeva attutito per la distanza, ma sufficiente per indurlo a uscire sulla soglia, a guardare il mare lontano tingersi di mille riflessi, confusi fra le onde.
Era Giugno, e Athene festeggiava. Come ogni anno. Ma lui quell’anno mancava. Milo aveva tentato di convincerlo, lo aveva anche trascinato per alcuni gradini.
"Dai vieni, coraggio! Ci divertiremo! Non fare l’asociale, ti vogliamo con noi! Guarda che non starò qui a pregarti in eterno!"
Ma lui era stato irremovibile: quella sera non voleva uscire, non se la sentiva. Desiderava semplicemente restare lì; desiderava restar solo.
Adesso però un po’ se ne pentiva; e avrebbe voluto essere anche lui là, in mezzo alla festa a levare in alto il bicchiere. Non perché si sentisse particolarmente allegro o desideroso di compagnia; soltanto, anche solo per un attimo, avrebbe forse potuto perdere coscienza di sé, assordato dal suono di mille voci, dalla musica prorompente, dalla frenesia della gente, ebbro di luci e colori; un istante soltanto, sarebbe bastato; una tregua irrisoria, labile ed effimera, ma pur sempre una tregua. Per respirare di nuovo; per zittire, anche solo per un istante, il turbinio assordante dei suoi pensieri.
Chiuse gli occhi, inspirando l’aria salina profumata di ginestra e lavanda, e con un gesto lento poggiò la mano su di una colonna. Sentì il freddo, e il taglio preciso della scanalatura.
Rabbrividì. Quel taglio netto era irricomponibile, come gli squarci della sua vita. Ed era affilato, lama di un pugnale che aveva dato avvio a tutto.
Nel battito del suo cuore, ascoltava il riflusso impetuoso dei suoi rimorsi; le nuove consapevolezze che aveva accettato come atti liberatori si erano mutate in accuse prive di appello, colpi durissimi da incassare. Lo avevano atterrato con la loro penetrante veridicità, e ora lo tenevano premuto a terra, schiacciato nella polvere e nel fango; prostrato; incapace di rialzare anche solo lo sguardo.
Si sentì perduto. Si aggrappò alla colonna con entrambe le mani, insicuro del proprio equilibrio. Gli abissi della sua coscienza si aprirono su un deserto oscuro, alieno, ostile. Ed egli lo percorreva, in marcia senza sapere verso dove, e lentamente persuaso, ad ogni passo, che le impronte dietro di sé subito si cancellavano, che irrimediabilmente perdeva qualcosa di sé. Una sola consapevolezza gli restava: non si poteva tornare indietro.
Di nuovo si sentì cadere. L’oscurità attorno a lui si fece più densa, palpitante. Sentì freddo, e il marmo della colonna sulla pelle; ma gli occhi non restituivano che nero, sempre e ovunque. D’un tratto si trovò a fissare un volto familiare, e lo sguardo tranquillo di quegli occhi verdi gli fece più male del più astioso dei rimproveri.
Aprì la bocca per gridare, ma non aveva voce; cercò di muoversi, ma sentì il corpo, pesante, lentamente sprofondare nella sabbia che lo imprigionava. Si dibatté selvaggiamente, come un leone in gabbia, ma i muscoli, contratti fino allo spasimo non rispondevano.
Pianse. Solo questo gli restava.
Sedeva su uno dei grandi leoni di pietra accovacciati che adornavano l’ingresso. Lo aveva sempre fatto, fin da bambino, nella sua città natale, di cui il leone era ancestrale emblema.
Si era staccato con riluttanza e sollievo dalla colonna, e si era seduto lì, sul dorso di quel fiero animale, guardando lontano oltre il mare increspato.
Avvertiva lo coscienza rifluire dalle vertigini in cui si era bissata. Si sentiva spossato, inebetito. La consapevolezza del corpo gli era ripiombata addosso con una compattezza granitica, e la prima cosa di cui si fosse accorto erano state le scie umide delle lacrime sulle guance.
Tredici anni erano ormai trascorsi, e il quattordicesimo stava scorrendo…un anno di pace, l’ultimo di guerra; di una guerra lunga tredici cicli solare, vissuti sospesi sul filo di un equilibrista.
E si chiese, ancora, come avesse potuto, anche lui, soprattutto lui, gridare al traditore…e ignorare la consapevolezza di qualcosa che sfuggiva nella sua anima; eppure era sempre stata là, riposta in un recondito luogo.
Scendere in campo con il solo obiettivo di ristabilire un nome, ecco cosa aveva guidato il suo pugno in ogni azione. Aveva cercato in mille lodi di nascondere quelle somiglianze che gli anni sottolineavano ormai sempre di più, macchie di condanna; come il bruciare del sangue nelle vene, sangue di traditore.
E l’isolarsi, per non sentire su di sé gli sguardi diffidenti dei compagni, il disprezzo palpabile, i rifiuti inespressi…e tutto solo per onore…
Maledetto, maledetto onore! Cosa aveva fatto? Cosa?!
Quella domanda lo perseguitava di notte e di giorno, fin da quando la verità gli era stata schiaffeggiata in viso; violenta, della stessa violenza che lui aveva riversato nella sua volontà di lavare un’onta che tale non era mai stata…un onore portato come un onere, e che gli pesava più di mille condanne…tradire chi si era chiamato traditore, senza che mai lo fosse stato.
Affondò la testa nella braccia conserte, e i riccioli biondi si confusero con la criniera di marmo. Scosso, disorientato, incredulo; sentiva il cuore pulsargli in gola e nelle orecchie un ronzio continuo di rimproveri mai pronunciati.
Si sentiva così male…
Udì dei rintocchi, echi nella valle lontana, e un lieve rumore di passi. Non si mosse, preso com’era da una strana apatia, scoperta dopo l’onda impetuosa della disperazione.
Continuò a tenere gli occhi chiusi e il volto nascosto, anche quando avvertì la presenza di qualcuno accanto a sé. Era così immobile da confondersi col guardiano di pietra, apparendo, da lontano, un unico blocco informe, male scolpito.
Un suono inconsueto lo sfiorò e con riluttanza alzò il volto per vedere cosa l’avesse provocato. Sull’alto piedistallo, accanto ad una delle zampe del leone, brillavano due piccoli cubi d’avorio.
…Astragali…
Inebetito, seguì i movimenti della mano diafana che li raccolse, e si trovò a fissare due occhi blu profondi come il cosmo.
"…Shaka…" mormorò, ancora smarrito nei suoi echi interiori.
Quello sorrise, sereno, e con un gesto lento, studiato, aprì il palmo mostrandogli i dadi. Lui fissò i cerchietti neri e il volto di porcellana incapace di qualsiasi conclusione.
"Dodici, Ioria." Rispose, mantenendo la stessa espressione rilassata. "Questa volta la sorte ha arriso a me".
Lui sorrise, trasognato, non aveva capito bene; e iniziò a fissar il mare argentato facendosi accarezzare dalla brezza. L’aria, il fresco, i suoni lontani irruppero nel suo ego cosciente, destandolo completamente dai suoi torpori.
"Perché fai così? È inutile" mormorò d’un tratto Shaka, e lui si rialzò velocemente a sedere, fissando uno sguardo sgomento negli occhi del compagno. Non si mosse; e lui dovette distogliere lo sguardo, incapace di sostenere quegli occhi che sembravano riuscire a leggergli dentro, fino nei recessi più profondi dell’anima.
Shaka sospirò, e il suo sorriso dileguò lasciando solo un residuo di mestizia. Restò in silenzio, a lungo, rincorrendo veloci pensieri, fissandolo di sfuggita, così rigido nella sua posizione; sembrava lui pure parte della scultura. Quando riprese, lo fece rivolto quasi a se stesso.
"Stanno ardendo i fuochi. Non vai a prenderne parte? Fra poco la festa entrerà nel vivo"
"…la festa?..."
"La festa, sì. Quella tremenda fiera chiassosa, che inebria gli uomini con i suoi canti e li ammalia coi suoi suadenti colori, trascinandoli in abissi profondi."
Ioria guardò verso la città brulicante di vita, avrebbe voluto essere là, privo di ansie e pensieri. Privo di rimorsi. Fosse pure per precipitare in quegli abissi aborrito da tutti.
"Non pensi di esagerare?" disse piano, sorridendo appena. "In fondo è solo una ricorrenza annuale; non certo un’orgia bacchica premeditata…"
"Forse" replicò l’altro senza guardarlo. "Ma le ricorrenza conciliano i ricordi; e i ricordi la solitudine, che dell’uomo e infida compagna".
"E’ un rimprovero?"
Shaka non rispose. Scosse il capo e lo chinò di lato, lasciando che i capelli gli ricadessero sulla fronte; e rimase a guardarlo, serio. Lui tacque, mentre si sentiva sondare tutto e un vago senso di disagio lo attraversava, facendolo tremare in ogni fibra.
"Voglio solo un po’ di tranquillità, per riflettere. Ne ho bisogno" disse infine, cercando di eludere quell’arcana corrispondenza che per un attimo aveva sentito intrecciarsi.
Inaspettatamente, Shaka gli prese una mano, attirandola a sé con dolcezza, e vi lasciò cadere sul palmo i dadi, chiudendogliela.
"E non teme, quest’uomo angustiato, di ritrovarsi di nuovo solo?".
Allentò la presa e fece un passo indietro, lasciandolo solo a cavalcioni del leone.
"…un martire privo di motivo, una cometa che brucia troppo in fretta?"
Se ne andò, lieve com’era venuto, lasciando una domanda a riempire il silenzio. "Ha davvero senso tormentarsi quando si stringe la mano a chi ha già perdonato?"
Ioria restò ancora dov’era, a guardare il buio del tempio prima e la città gemmata poi. Si sentiva crescere dentro un’angoscia prorompente, desiderio di comprendere quelle parole che sembravano monito non di compagno, ma di fratello.
Rincorse mille pensieri, elaborò mille congetture e altrettante ne scartò; accarezzava con gesti rapidi la chioma di pietra, scaricando la frustrazione che di continuo aumentava.
Si ricordò dei dadi che stringeva ancora in mano, come gl’egli aveva consegnati Shaka. Ne ebbe paura. In una vertigine d’orrore vide la sua mano tendersi fino allo spasimo, stringersi fino a sentire gli spigoli duri penetrare le carni, infine irrigidirsi in una limpida immobilità.
Respirò profondamente, alcune volte, e infine aprì le dita tremanti. Osservò i piccoli punti neri, basalto splendente su un fondo bianco di candore, di purezza, di perdono. Li contò.
Erano nove.